Crescita personale non significa raggiungere un obiettivo oppure ottenere un buon risultato. Crescita personale significa diventare le persone che siamo nate per essere, significa imparare a vivere felici sin da ora.
Possiamo iniziare ogni giorno nel modo migliore: credendo in una giornata positiva, scegliendo l'atteggiamento giusto, ricordandoci che ogni giorno, anche oggi, è sempre il primo giorno del resto della nostra vita.
Siamo padroni della nostra vita, che ci piaccia o meno, la nostra esistenza è frutto delle nostre scelte. Se questo vuol dire responsabilità, significa anche possibilità: possiamo decidere di crescere, a cominciare da adesso.
La strada che hai alle spalle ha una cosa in comune con quella che hai di fronte: è una tua scelta. La vita che hai di fronte ha una grande differenza rispetto a quella che hai alle spalle: ora sai che sei tu a scegliere.
Io credo, anzi ne sono certo, che il perdono sia una delle più alte forme di amore di cui siamo possibili, insieme con la fiducia. Amore e perdono sono indissolubilmente legati tra loro perché se siamo capaci di amare allora dovremmo anche essere capaci di perdonare. Ho già scritto cosa vuol dire perdonare, qui mi preme chiarire che per imparare ad amare dobbiamo imparare a perdonare.
Così come l’amore è una scelta anche il perdono lo è: una decisione unilaterale, indipendente, mia, un atto di massima libertà con il quale decido di chiudere con il passato, di non portare rancore, non cercare vendetta o rivalse anche piccole, non rivangare l’accaduto in un secondo momento. Se perdoniamo davvero non tenteremo di manipolare gli altri con il senso di colpa: perdonare comporta che il fatto, per noi, è cancellato. Non se ne parla più e agiamo come se non fosse mai successo.
Perdonare significa anche ripristinare la fiducia che nutrivamo nelle persone che ci hanno ferito così com’era prima dell’accaduto. Non è perdono se continuiamo a ricordare l’episodio, se non diamo più fiducia agli altri per via di uno sbaglio. Imparare ad amare richiede la nostra capacità di perdonare in modo autentico gli altri. Non stiamo realmente perdonando se pretendiamo un certo comportamento riparatore, non o stiamo facendo se continuiamo a diffidare della persona che ha sbagliato, non lo stiamo facendo se ci poniamo in una situazione di superiorità rispetto a lei.
Perdonare comporta una cancellazione, la fine di ogni pretesa di risarcimento, richiede la nostra capacità di amare, di comprendere che tutti abbiamo fragilità e possiamo sbagliare, che noi siamo come gli altri e nessuno è perfetto. Perdonare vuol dire quindi imparare ad osservare gli altri e non i loro sbagli, guardare le somiglianze tra noi e comprendere che anche noi potremmo sbagliare. Amore e perdono sono legati anche perché sono entrambi doni incondizionati, li elargiamo senza pretendere nulla. Quando perdoniamo siamo capaci anche di ricordarci che noi, in ogni occasione, vorremmo ricevere perdono e una seconda chance. Perdonare ci ricorda anche che la fiducia è una prova di amore verso gli altri. Ecco alcuni spunti utili:
Mettiti nei panni di una persona che ha commesso un torto verso di te: come vorresti essere trattato al suo posto? Vorresti avere una seconda occasione? Ti piacerebbe poter rimediare o comunque avere ancora la fiducia degli altri? Sai liberarti dall’assurda convinzione che “tu non avresti mai commesso quell’errore”? Perdonare esige l’umiltà di capire che oggi siamo noi a perdonare, domani saremo noi a voler essere perdonati.
Impara a non accusare mai nessuno: analizza i fatti, osserva gli errori ma tienili separati dalle persone. Non incolpare di niente nessuno ma cerca invece di trovare, insieme agli altri, soluzioni ad errori e sbagli. Se non accusiamo di nulla, di nulla dovremo perdonare.
Oggi il perdono è un’arte difficile. Sebbene amore e perdono siano un tutt’uno, al primo torto le coppie si separano, gli amici si allontanano, i parenti si dividono. Non abbiamo imparato a perdonare perché siamo privi di modelli positivi attorno a noi e perché siamo troppo concentrati su noi stessi, vedendo tutto come minacce alla nostra soddisfazione.
Perdonare è un ottimo banco di prova per comprendere quanto siamo capaci di amare: non il perdono “commerciale” con cui manipoliamo gli altri, ma quello autentico, figlio dell’amore, con cui cancelliamo e ricominciamo come se nulla fosse accaduto.
Amare significa anche provare un sincero, autentico e disinteressato interesse nei confronti degli altri. Parlare di “interesse disinteressato”può sembrare un controsenso ma serve a rendere chiara una differenza fondamentale: ho scritto che l’amore deve essere disinteressato, ossia non dobbiamo amare per ricevere qualcosa in cambio. L’interesse verso gli altri, quindi, deve essere rivolto alla loro felicità e non al nostro vantaggio. Provare un interesse sincero verso gli altri significa avere a cuore l’interesse altrui ma non cercare la soddisfazione dei propri bisogni attraverso gli altri.
L’interesse sincero fa rima con sostegno ed incoraggiamento, con la volontà di essere utili e di supporto a chi può avere bisogno di noi. Incoraggiare significa appoggiare gli altri, credere in loro averne fiducia e mostrarlo apertamente, con le parole e con i fatti. L’interesse deve essere sincero perché questo sostegno non diventi una formalità, un comportamento che “dobbiamo” tenere in certe situazioni ma sia qualcosa in cui crediamo davvero.
Interessarci agli altri comporta anche il pensare: avere a cuore una persona, cercare soluzioni per un problema che non ci tocca o semplicemente forme e modi per condividere la nostra vita con loro. L’interesse autentico ci porta ad avere sempre uno spazio nei nostri pensieriper le persone che amiamo non in modo ossessivo, come accade quando ne abbiamo bisogno, ma in modo positivo, senza avere un vantaggio da conseguire da queste nostre attenzioni.
La principale espressione del sincero interesse verso gli altri sta nel desiderare che siano felici: non imponendo che vivano come noi riteniamo sia giusto per esserlo, ma lasciandoli liberi di essere chi vogliono e diventare chi preferiscono. Felicità che non deve mai essere offuscata dai nostri bisogni o dalle nostre pretese. Volere la felicità degli altri, però, non significa far dipendere la nostra dalla loro: il modo migliore per aiutare gli altri ad essere felici è quello di essere un ottimo esempio e lasciare la libertà di cui tutti abbiamo bisogno. Se le nostre pretese verso gli altri sono in contrasto con la loro felicità, amare significa accantonarle. Amare significa non pretendere e non chiedere nulla in cambio del nostro amore.
Ecco qualche idea:
Prova a pensare ad una persona, dedica del tempo, ogni giorno, a riflettere sul suo modo di comportarsi e sulle motivazioni che la spingono ad agire così, cerca di comprenderne il punto di vista, anche se differente dal tuo, pensa a come potresti agire nei suoi confronti, la prossima volta, in modo più comprensivo o disponibile. Dedica i tuoi pensieri a qualcuno in modo positivo e comprensivo, anche questo significa amare.
Aspettati il massimo da qualcuno e dona il tuo incoraggiamento ed il tuo supporto: aiuta chi pensi possa avere bisogno del tuo aiuto attraverso un gesto o una parola, dimostrati disponibile e comincia a credere in questa persona, nelle sue possibilità e nel suo successo. Sii però sempre sincero, non accomodante, ma onesto e costruttivo, dimostra la tua fiducia con le parole ed i fatti. Un grande atto di amore è lasciare le persone libere di agire credendo nella bontà delle loro azioni.
Tutti noi abbiamo un enorme potenziale dentro e solo attraverso l’amore vero, quello che nasce dall’interesse sincero che nutriamo vero gli altri, può fornire l’aiuto ed il sostegno giusto perché questo potenziale emerga anche in situazioni avverse. Amare è la più grande forza di cui disponiamo, non dimentichiamocelo mai.
Condividere significa rendere gli altri partecipi, un po’ come se tenessimo una cena a aprissimo le porte alle persone, oppure se decidessimo di dividere la nostra torta di compleanno con tutti gli invitati. Condividere significa aprirci, lasciare che altri possano godere di quanto abbiamo senza restrizioni, con il piacere e la voglia che possano anche loro trarne vantaggio.
Una metafora spiega l’amore partendo dalla rosa, o se preferiamo, dal sole. Sia la rosa che il sole condividono la loro natura (profumo e calore) con chiunque sia li vicino per cogliere questo dono. Non chiedono autorizzazioni né fanno distinzione alcuna, ma elargiscono la loro natura, ciò che sono, a tutti coloro che vogliono goderne. L’amore, come detto, è incondizionato e non chiede nulla. Imparare ad amare, quindi, significa anche imparare a condividere: mi riferisco alle nostre attenzioni per gli altri, al nostro tempo dedicato a loro (non le rimanenze), ai nostri interessi e alle nostre passioni che sviluppiamo assieme ad altri, alle cose che possediamo, al nostro modo di essere, fino alla nostra felicità.
Amare non è mai la ricerca della felicità negli altri, ma la condivisione della nostra con loro. Condividere significa aprire i cancelli della nostra vita e mettere le persone che amiamo a parte della festa che stiamo tenendo, rendendole tutte partecipe, come il sole o la rosa, di quello che noi siamo.
Possiamo imparare a condividere innanzitutto il nostro tempo, scegliendo di dedicarne una parte agli altri in modo esclusivo e non come avanzo di altre priorità, oppure possiamo scegliere di condividere una nostra passione coltivandola assieme ad altri, oppure dedicandoci con loro a crescere insieme, imparare cose nuove. Possiamo dare agli altri cose che a noi servono poco, oppure donare parte della nostra fortuna a chi ne avrebbe più bisogno. Non è necessario essere ricchi per poter condividere quanto abbiamo: “non ho né oro né argento, ma quello che ho te lo do”. Questa è la massima giusta per capire cosa vuol dire condividere.
Ecco qualche idea:
Riserva almeno un’ora, tutti i giorni, per ascoltare qualcuno, per trascorrerci del tempo assieme, per dedicare attenzioni ad una persona. Non conta se è un amico, il partner o anche uno sconosciuto, l’importante è riservare sempre del tempo di qualità per condividere noi stessi con gli altri, anche senza chissà quale programma. Basta il nostro interesse sincero.
Compi ogni giorno un favore per qualcuno, dai una mano a chi ne può avere bisogno ma senza chiedere nulla in cambio. Non considerarti in credito e non accettare “rimborsi” per la tua disponibilità.
Oggi si parla spesso di condivisione ma mai intendendola una scelta d’amore. Spesso la condivisione è una forma di baratto, uno scambio alla pari dove dai per il solo vantaggio di ricevere. La ruotine e le consuetudini sociali non ci dicono di amare per il piacere di farlo né di condividere per lo stesso motivo, ma di “sdebitarci” dai favori e dalle gentilezze.
Imparare ad amare esige che impariamo a condividere con spirito altruistico e gratuito, senza aspettarci nulla, senza chiedere niente e senza approfittare della generosità “sociale” che potrebbe nascere dalle nostre azioni.
Partiamo dal presupposto che la parola rispetto ha assunto significati differenti e che oggi, anche seguendo quanto ci suggerisce il dizionario, significa “riconoscere i diritti della superiorità, della dignità e del merito altrui” sinonimo di onorare, avere riguardo. Onestamente se rispettare significa riconoscere la superiorità altrui ci si chiede che posto abbia il rispetto in amore: dobbiamo considerare superiori gli altri? Il nostro partner? I nostri amici?
Mettiamo un poco di ordine. Rispetto viene dal latino, dalla parola respicere che significa guardare. Questo già ci pone ad una certa distanza dal concetto espresso dal dizionario. Rispettare qualcuno non significa portare omaggi, assecondare o umiliarsi riconoscendo la superiorità altrui: queste sono costruzioni sociale figli di una mentalità che bada solo all’apparenza dell’accettazione formale da parte degli altri. Rispettare, in senso autentico, significa osservare, avere la capacità, come scriveva Fromm nell’Arte di Amare, di vedere una persona per come è, di conoscerne la vera individualità… desiderare che l’altra persona cresca e si sviluppi per quello che è. Rispettare, quindi, vuol dire concedere la libertà di essere ciò che scegliamo di essere e di non pretendere, mai, niente. Ecco che il rispetto in amore diventa un ingrediente fondamentale.
Dalla definizione di amore che ho dato in un post precedente è evidente che senza questa capacità non potrà mai esserci realmente amore: senza rispettare gli altri non sapremo mai amarli davvero, potremo solo fingere per assecondare i nostri bisogni e le nostre pretese.
Rispetto in amore significa anche sincerità ed onestà nei confronti degli altri, niente “bugie a fin di bene”, niente inganni o manipolazioni: d’altronde non ce ne sarà alcun bisogno se siamo realmente interessati agli altri e pronti ad amare. Anche l’apprezzamento è un segno del rispetto che proviamo per gli altri perché dichiara che ci piace una persona per quello che è, perché sappiamo vedere ciò che di buono ha dentro di sé. La fedeltà e la correttezza sono poi due conseguenze logiche del rispetto. Ho già detto che tradire e amare è impossibile perché un tradimento è una delle peggiori mancanze di rispetto che possiamo avere verso una persona che diciamo di amare.
Il rispetto in amore richiede una notevole forza, maturità e sicurezza interiore perché solo una persona forte può accettare e valorizzare gli altri senza esserne in soggezione o senza bisogno di manipolare o ingannare. Il rispetto è anche una delle qualità, e delle scelte, che meno si applicano oggi in modo sincero: di solito ci si comporta secondo le regole e l’etichetta sociale ma il vero rispetto non sta nella forma esteriore, ma nel nostro modo di essere e nelle nostre reali emozioni. Fingere rispetto non serve a nulla, maschera soltanto la nostra incapacità di amare.
Queste idee possono aiutarti a riflettere sul valore del rispetto e a fare questo passo importante sulla strada dell’amore:
Comincia da subito a parlare e agire come se le persone interessate dalle tue azioni siano sempre presenti di fronte a te. Agisci come se loro fossero li ad osservarti, parla come se ti stessero ascoltando. Usa questo espediente per imparare l’importanza del rispetto in amore e fare del rispetto un tuo modo di essere e non di comportarti.
Fai un elenco di tutte le cose utili o positive che qualcuno compie a nostro vantaggio. Elenca anche ciò che questa persona fa per dovere o per il suo ruolo, anche le cose più elementari e banali. Rispetto vuol dire anche apprezzamento per l’ovvio, per i dettagli che fanno realmente la differenza.
Per imparare ad amare dobbiamo, prima di tutto, imparare a comprendere gli altri. Non saremo mai capaci di amare nessuno se non saremo in grado prima di comprenderlo. La comprensione, poi, è essa stessa un atto d’amore, la consapevolezza che tutti, infondo, siamo uguali tra noi.
L’amore necessita di comprensione: per le scelte che vengono fatte, per i propri e altrui stati d’animo, per le paure, per i sogni, per le emozioni e per i pensieri. Comprendere è molto di più che capire: significa andare oltre la superficie e capire cosa vuol dire essere l’altro. Non basta pensarlo, dobbiamo cercare di metterci realmente nei panni altrui.
Amare vuol dire superare il nostro interesse egoistico per comprendere come gli altri vedono il mondo, per capirne le regole e accettare le scelte e il loro modo di vivere. Non possiamo amare una persona senza averla accettata per quello che è e non possiamo riuscire in questo senza averla prima compresa.
Anche l’empatia gioca un ruolo importantissimo per aiutarci a comprendere realmente chi ci sta vicino perché ci permette di sintonizzarci sull’emozione non detta, su quello che anima la mente degli altri prima che possano comunicarcelo. Essere empatici significa saper comprendere gli altri percependone le emozioni ed i pensieri. L’empatia richiede attenzione verso gli altri per notare anche quei segnali quasi impercettibili che ci comunicano spesso più di molte parole.
Comprendere significa anche ricordare che nessuno, compresi noi, è perfetto e che tutti possono avere bisogno del nostro aiuto e del nostro supporto. Comprendere significa anche smettere di giudicare e non dare peso a chi ha ragione o chi ha torto, ma entrare in contatto reale con le persone e non con l’immagine che ne abbiamo fatta.
Senza comprensione l’amore è impossibile perché non possiamo amare un’etichetta o un pregiudizio: non comprendendo gli altri, non sforzandoci di conoscerli realmente, rimaniamo fermi sulle nostre impressioni, sui preconcetti che abbiamo nei loro confronti e finiamo per classificare le persone con un titolo, un carattere o un aggettivo fisico.
Voglio proporti un paio di esercizi per divenire consapevole e allenare la tua capacità di comprensione:
Prima di esprimere qualsiasi giudizio cerca di scoprire cosa interessa realmente agli altri, a cosa tengono, cosa li spinge ad agire o parlare in un certo modo. Non accontentarti della prima impressione o delle prime giustificazioni, ma cerca di andare più a fondo possibile per comprendere realmente cosa motiva le persone ad agire in un certo modo.
Individua un aspetto di qualcuno che di solito ti infastidisce e non accetti. Concentrati su di esso e comincia ad osservarlo quando si presenta sforzandoti di lasciar correre invece di reagire. Comincia anche a comprenderne le motivazioni, i perché di qual comportamento o tratto a te tanto fastidioso. Cerca di osservare i lati positivi e scopri perché altri non ne sono infastiditi. Comprendere è la chiave per accettare.
Comprendere veramente non significa porsi nei panni degli altri per poter criticare meglio, ma imparare a riconoscere che quei panni hanno un senso e un valore e che se anche noi agiremmo o penseremmo in modo differente, le scelte degli altri, le loro debolezze sono degne di rispetto. Comprendiamo quando cominciamo a pensare: “ora capisco cosa prova e mi rendo conto che è lecito”. Chi comprende non giudica, ma sostiene e incoraggia.
“Non esistono formule né metodi: solo amando impariamo ad amare”. Con queste parole, Aldous Huzìxley, ci vuole spiegare che non possiamo imparare ad amare da nessuno che non da noi stessi, non possiamo farlo “a tavolino” ma solo sul campo, solo mettendoci in gioco e provando. Il modo migliore per imparare un’arte, in generale, è proprio quello di cominciare a praticarla.
L’amore è qualcosa che si fa, una serie di comportamenti e azioni attive che richiedono non solo la nostra scelta volontaria consapevole, ma anche la nostra determinazione ed il nostro impegno. Amare non è semplicemente un’emozione che proviamo, ma soprattutto una scelta che compiamo. Amare qualcuno comporta la volontà di dare noi stessi senza pretendere nulla, ben consci che più diamo, più amiamo, e più abbiamo da dare.
Possiamo quindi imparare ad amare attraverso un corso di formazione? Possiamo forse farlo attraverso l’esempio di altri? O ci basta leggere articoli come questo e libri sull’amore? In verità possiamo imparare ad amare solo amando, come dice saggiamente Huzixley. Articoli, libri, anche seminari o incontri che parlano di amore però, possono darci lo spunto, la scintilla che ci aiuti a comprendere meglio cosa comporti amare e a provare praticamente, e personalmente, con maggiore consapevolezza.
Imparare ad amare, tuttavia, resta la sfida più difficile in una società che ci insegna esattamente il contrario: viviamo all’insegna dell’interesse personale, dove conta solo se ci guadagniamo qualcosa in quello che facciamo, e dell’egoismo, dove tutto ruota attorno a noi e ai nostri bisogni. Amare significa andare oltre il nostro interesse e dare senza pretendere, elargire quanto di più prezioso abbiamo, noi stessi, senza pretesa alcuna, senza imposizioni o condizioni. Abituati come siamo a scambiare tutto per qualcosa d’altro è una sfida impegnativa.
Imparare ad amare presuppone la volontà di mettersi in gioco, di realizzare concretamente le belle parole con cui ci vantiamo, le idee che, con convinzione, diciamo di seguire, sebbene spesso questo sia solo in teoria. Amare comporta una maturazione emotiva e mentale che spesso non abbiamo ancora completato, richiede impegno e concentrazione, richiede di venir posto come una priorità assoluta nella nostra vita. Non possiamo imparare ad amare se ci dedichiamo a questo solo nel tempo libero o nella pausa pranzo!
Per via della nostra educazione che ci insegna a non amare ma a pretendere, a voler essere amati, a porre condizioni, ad avere bisogno degli altri per le cose più banali, a non divenire mai realmente liberi ed indipendenti, l’impresa di imparare ad amare appare senza dubbio difficile, ma una cosa è certa: imparare ad amare è la sola via per salvare la nostra vita ed il nostro mondo.
Come detto, quindi, è qualcosa che possiamo imparare solo attraverso la pratica, l’impegno, l’esperienza diretta. Quello che posso fare io è dare spunti per riflettere, mostrare idee e principi per divenire più consapevoli, evidenziare i possibili tranelli in questa strada, suggerire modi per migliorare e fare pratica con maggior successo, portare la mia esperienza e le mie riflessioni per un confronto. Qui di seguito troverai alcune idee su cinque capisaldi della capacità di amare: la comprensione, l’interesse sincero, il rispetto, il perdono e la condivisione. Spero possano essere come una luce utile in questo percorso, perché imparare ad amare è un viaggio che dura tutta la vita.
Amore e comprensione
Possiamo imparare ad amare solo coloro che impariamo a comprendere: metterci nei loro panni e capire che è lecito che loro li indossino così come sono
Interesse sincero
L’interesse disinteressato è fondamentale in amore. L’interesse sincero è verso gli altri e la loro felicità, non per noi, le nostre pretese e il nostro egoismo
Rispetto in amore
Rispettare significa amare nel momento in cui siamo disposti ad osservare le persone per quello che sono realmente lasciandole libere di esserlo
Amore e perdono
Se non sappiamo perdonare non siamo nemmeno capaci di amare. Il perdono è amore allo stato puro quando accoglie e cancella il male rendendo il bene
Amore e condivisione
Amare è come dare una grande festa ed aprire i cancelli perché tutti possano prendervi parte. Se non sappiamo condividere non impareremo mai ad amare
Negli ultimi anni ho dedicato tantissimo tempo a studiare l’amore, nel tentativo di comprenderlo meglio di quanto non fossi riuscito prima, per comprendere il perché della tanta sofferenza, delle così frequenti crisi di coppia, dell’incapacità di volersi bene l’un l’altro invece i nutrire invidie o gelosie. Volevo capire cosa fosse veramente l’amore, cosa significasse amare e come imparare a farlo.
Ho capito che l’amore è un modo di vivere e non una meta che si raggiunge, che non arriveremo mai ad un punto in cui poter dire: “adesso so amare”, perché amare è il modo in cui affrontiamo la sfide della vita, in cui ci relazioniamo agli altri, ci comportiamo con noi stessi. Amare è qualcosa che facciamo e non semplicemente un’emozione che proviamo e per questo possiamo, ogni giorno, imparare ad amare più del giorno prima e riuscire a migliorarci costantemente. Inoltre se oggi amo questo non vuol dire che domani accadrà lo stesso per inerzia: poiché l’amore è una scelta siamo in grado di amare se, ogni giorno, scegliamo di farlo concretamente.
Scoprendo cosa sia realmente l’amore, e accorgendomi che se ne trova davvero pochissimo oggi, ho capito che possiede alcune caratteristiche fondamentali: l’amore è una scelta, è qualcosa che doniamo agli altri senza chiedere nulla, senza pretendere e senza compromessi. L’amore è universale (o amiamo tutti o non amiamo nessuno), l’amore nasce dalla nostra libertà, soprattutto dall’essere liberi dal bisogno degli altri, l’amore comporta una maturità emotiva estremamente rara, comporta responsabilità e indipendenza. L’amore richiede impegno, non ha nulla a che vedere con la gelosia, con la sofferenza, non è amore pretendere di avere una persona solo per noi, non è amore odiare qualcuno e credere di poter amare altri, non è amore avere bisogno di un’altra persona o soffrire per la sua assenza, non è amore la pretesa che gli altri si comportino in un certo modo.
Mi sono reso conto che l’amore manca quasi sempre nelle relazioni per fare posto a compromessi, ad accordi in cui un partner (ma anche un amico, un fratello o un conoscente) dona qualcosa solo se riceve in cambio qualcos’altro, a dipendenza reciproca, a debolezza e attaccamento. Quasi sempre utilizziamo la parola amore mentre non amiamo affatto.
Appare a volte difficile capire come ci si possa essere sbagliati così tanto e per così tanto tempo, ma soprattutto appare difficile imparare ad amare in modo autentico: siamo abituai a dipendere dagli altri, convinti che sono loro a renderci felici, che sono loro a farci stare bene, che è normale essere gelosi delle persone a cui vogliamo bene, soffrire se ci rifiutano e molte altre errate credenze sull’amore. Soprattutto abbiamo interiorizzato l’assurdità che l’amore vero è quello della coppia erotica, sublime nel sesso.
Ho capito che ci sono alcuni presupposti per amare, dei requisiti, se vogliamo, senza i quali il passaggio dalla distorta realtà dell’amore all’autentica realtà di cosa significhi amare veramente sarà impossibile. Qui di seguito trovi quelli che sono i presupposti dell’amore: indipendenza emotiva, libertà personale, sicurezza interiore, la cura di sé. Queste sono le basi per imparare, ogni giorno, ad amare.
Indipendenza emotiva
Solo divenendo consapevoli che siamo responsabili della nostra vita e delle nostre emozioni potremo imparare ad amare veramente
Essere liberi
L’amore nasce dalla libertà. Se non siamo liberi non siamo nemmeno capaci di amare. Il primo passo è quindi scoprire che siamo sempre liberi
Sicurezza interiore
La sola sicurezza su cui possiamo fare affidamento è quella interiore, che nasce dall’amore e non dalle persone o dalle cose.
La cura di sé
Possiamo amare gli altri solo nella misura in cui impariamo anche ad amare noi stessi. Prendersi cura di se è fondamentale per poter amare anche gli altri.
In un articoli pubblicato tra i primissimi del sito, ho scritto cos’è la libertà, cercando di condividere in modo chiaro il concetto della Vera Libertà spesso in contrasto con il modo di sentirsi liberi che oggi va di moda. Spesso crediamo che essere liberi, infatti, voglia dire poter fare tutto quello che ci pare, prendere qualsiasi decisione vogliamo e , soprattutto, poter ottenere sempre e comunque quello che preferiamo e ci piace. Un detto dice che non possiamo avere la botte piena e la mogli ubriaca, ma sembra che quasi tutti, oggi lo dimentichino.
Il diritto di espressione, di parola, di confessione, la possibilità di agire senza imposizioni come avveniva in passato, oggi è stato ampiamente travisato in un modo di vivere senza regole, in cui tutto sembra essere lecito e i limiti diventano forme bigotte, e antiquate, per nulla in linea con il nostro sistema sociale o la nostra cultura. Essere liberi è un presupposto per amare, ma non ha nulla a che vedere con questa finta libertà.
Essere liberi significa, prima di tutto, capire che siamo responsabili delle nostre scelte, sempre. Non c’è una sola situazione in cui non possiamo decidere cosa fare. Anche se non possiamo controllarne le conseguenze, come mi sembra anche ovvio, siamo sempre noi a decidere come agire, cosa dire, come fare. Siamo responsabili anche delle nostre emozioni, e questo è fondamentale per imparare ad amare. La rabbia la scegliamo tanto quanto l’amore o la felicità, come la tristezza o l’apatia. Tutto dipende da come interpretiamo il mondo e da cosa poniamo al centro della nostra vita: dalla nostra sicurezza interiore.
Scrivendo che l’amore è una scelta ho cercato di rendere chiaro che l’emozione che chiamiamo amore non capita, ma nasce in conseguenza delle nostre scelte di amare. Essere liberi vuol dire comprendere che le nostre emozioni ci appartengono e che non dipendono dagli altri: sino a quando crediamo che per essere felici o sereni dobbiamo ricevere qualcosa dalle altre persone non saremo mai capaci di amare ma cercheremo invece di manipolarle per avere quello che ci serve. Dobbiamo osservare come le emozioni, invece, dipendano solo ed esclusivamente da noi e che in ogni occasione possiamo decidere di “sentire” in modo differente e vivere una vita felice senza bisogno che nessuno si adegui alle nostre pretese.
Amare è possibile solo se siamo liberi e la libertà nasce nella nostra mente , non certo fuori. Essere liberi è un passaggio fondamentale senza il quale continueremo ad elemosinare quello che crediamo essere amore e a dipendere dagli altri: più le cose stanno così più noi ci impediamo di amare. Essere liberi ci scioglie dalle catene della gelosia, del possesso, dell’invidia, della rabbia, della vendetta. Se non ci liberiamo non impareremo mai ad amare.
Un presupposto fondamentale per imparare ad amare è la sicurezza interiore che possiamo sviluppare nella nostra vita: come essi umani abbiamo tutti bisogni di avere delle certezze, dei punti di riferimento su cui contare, elementi in grado di indicarci cosa è giusto e cosa invece è sbagliato, soprattutto quando la scelta diventa difficile e non siamo sicuri che strada prendere.
La sicurezza non è altro che la certezza che qualcosa che faremo o in cui crediamo sia giusta, che corrisponda alla realtà. Siamo sicuri di qualcosa quando crediamo di essere nel giusto. L’insicurezza nasce quando non abbiamo questa convinzione, quando dubitiamo di fare la cosa migliore, quando temiamo di commettere un errore.
Il motivo per cui l’insicurezza è così comune oggi è che diamo troppa importanza agli altri, viviamo la nostra vita dipendendo da loro. Se il nostro valore, le nostre scelte o ciò che va bene dipende da quello che gli altri pensano o credono, avremo sempre l’insicurezza di non poter sapere con certezza come agiranno. Le persone sono mutevoli e imprevedibili, prenderle come punto di riferimento ci condanna all’insicurezza. Non solo, anche il denaro, o il potere, il successo per come è inteso oggi, sono tutte cause di insicurezza. La vera sicurezza, quella che ci può guidare e stabilizzare, è solo interiore.
La sicurezza interiore nasce dal centro della nostra vita, da quello che riteniamo fondamentale, prioritario e che da senso alla nostra esistenza. Ciò che noi poniamo sul piedistallo, per così dire, condiziona tutto: le nostre parole, le nostre scelte, i comportamenti, le emozioni, le relazioni, la felicità… ogni cosa è influenzata da ciò che per noi ha la priorità su tutto il resto.
La sicurezza interiore di cui abbiamo bisogno per amare nasce solo se poniamo al centro della nostra vita l’amore, solo se tutto quello che facciamo dipende sempre dall’amare, solo se ogni parola, ogni azione, ogni pensiero e ogni decisione sono tutte in funzione dell’amore. L’amore non cambia, sempre c’è stato e sempre ci sarà, è il punto fermo migliore che esista e l’unico che ci darà non solo la sicurezza maggiore possibile, ma anche la direzione giusta da seguire.
Amare è la scelta giusta, quella che deve indurci a prendere ogni decisione nella nostra vita. Dall’amore dobbiamo prendere i valori che siano punti di riferimento quotidiani per aiutarci a non andare fuori strada: comprensione, ascolto sincero, accettazione, rispetto, sincerità, correttezza, giustizia, perdono, pazienza, altruismo, calma e pazienza, umiltà, generosità. Rispettando questi valori, che sono il modo in cui l’amore prende forma concreta, avremo sempre modo di seguire la strada migliore e sapremo sempre cosa fare e come agire.
La sicurezza interiore è la certezza che dentro di noi abbiamo i punti di riferimento giusti per sapere sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato. Amare è sempre la scelta migliore, indipendentemente dalla cultura o dall’epoca in cui viviamo. Da questa fonte di sicurezza nascerà un nuovo modo di vivere perché amare è qualcosa che possiamo fare sempre, in ogni situazione.
Il principale problema relazionale di sempre, oggi come ieri, sembra essere quello di trovare la “persona giusta”, incontrare il principe (o la principessa) che ci farà vivere una vita felice. Per venire incontro a questo “annoso” problema, sono nate migliaia di agenzie matrimoniali (serviranno a trovare il principe azzurro?), siti di incontri (è il principe che si cerca?), aperitivi speed date in cui possiamo conoscere, in pochi minuti, decine di persone tra cui… scegliere la persona giusta, se non per tutta la vita, almeno per farci pagare (oppure offrire) l’aperitivo!
Non parliamo poi di corsi e stage in cui si insegnano le arti della seduzione, ossia dei veri e propri corsi di formazione dove ci viene insegnato come sedurre l’altro sesso, come interessare e apparire intriganti, come sfruttare le parole, le atmosfere, e il giusto look per conquistare l’uomo (o la donna) dei nostri sogni. Insomma, se la persona giusta esiste ha le ore contate! Almeno sembrava così, invece poi leggo di divorzi in aumento (evidentemente non erano le persone giuste…), di crisi di coppia sempre più frequenti, della disillusione di molti che (dicono) non credono più che questo principe (o principessa) esista, si rassegnano e decidono (per qualche giorno in realtà) di chiudere con l’altro sesso.
Lo so, sto facendo della facile ironia su un tema molto importante, e quindi è il momento di rispondere alla domanda che dà il titolo a questo articolo, e cioè: “La persona giusta esiste?”. La risposta è si e no. Facile vero? Se per persona giusta intendiamo quella con cui condivideremo la nostra vita e affronteremo, superandoli, tutti gli ostacoli, esiste e come. No, se pensiamo che ci sia una persona fortunata (così si dice) che aspetta solo di incontrarci e che la nostra felicità dipende da questo meraviglioso incontro.
Partiamo dalla genesi di questa simpatica definizione “persona giusta” e capiremo meglio al cosa: la persona giusta è quella che ci renderà felici? Sbagliato. Se non siamo noi a scegliere di essere felici, nessuno potrà farlo al posto nostro. La persona giusta ci amerà? Si, perché sarà la persona che sceglierà di amarci,qualunque cosa accada e senza chiedere nulla in cambio, lei è la persona giusta.
Il problema è che molti aspettano la persona giusta come se fosse una panacea per la loro vita, ciò che la trasformerà e porrà fine ad un incubo. Molti sono convinti che il punto sia trovarla, il resto verrà da sé. In realtà di “potenziali persone giuste” ne abbiamo incontrate spesso, quello che mancava è che scegliessero di amarci. Il vero problema non è trovare la persona giusta, ma scegliere consapevolmente di amare quella persona che, a sua volta, sceglie consapevolmente di amare noi per condividere le nostre vite e costruire una strada comune. Bello vero?
La persona giusta è quella che sceglierà di amarci, non quella che ci trova attraenti e che a noi “attizza un casino”. Essere le persone giuste vuol dire non rimanere così in superficie ma decidere di condividere le proprie vite in modo profondo e autentico. Non è tanto la persona in sé che è giusta: a renderla quella giusta per noi è la sua scelta, contraccambiata, di amarci ogni giorno. Se il tuo partner ha scelto di amarti e tu di amare lui, complimenti, siete le persone giuste! Se non è così è il momento di fare questa scelta.
Cosa significa essere felici? Possiamo aspirare a raggiungere la felicità o dobbiamo rassegnarci a non poterla mai avere, per quanto continuamente persisteremo a inseguirla? Matthieu Ricard ci spiega che la felicità è alla portata di tutti, ma va distinta dal piacere edonistico che a volte, erroneamente, chiamiamo felicità.
In sanscrito egli parla di Sukha, ovvero uno stato mentale di benessere e serenità imperturbabile dall’esterno. La felicità dunque, non è l’apice della carriera, il proprio matrimonio o il finale di un rapporto sessuale. È invece uno stato mentale che non dipende dalle forze esterne a noi, né dagli altri né tanto meno dagli eventi.
Non si deve certo essere buddisti come l’autore, per cogliere delle interessanti e utili chiavi di lettura in questo libro. La felicità è, a mio avviso, lo stato naturale dell’uomo, e non va cercata fuori ma creata dentro noi stessi. Leggere le parole e le storie di Ricard, al di là dei credo religiosi, significa entrare in contatto con spunti di riflessione che non possono che aiutare un percorso di crescita personale.
Credo che ognuno di noi arrivi (o sia arrivato) al punto in cui comincia a chiedersi quale sia la propria strada. Magari osservando le proprie giornate e chiedendosi se non ci sia altro al di là di lavorare, mangiare e dormire, oppure sentendo un senso di insoddisfazione generale non riconducibile a niente di preciso, o soltanto chiedendosi quale sia lo scopo, il senso della propria vita.
Trovare la propria strada è un passaggio fondamentale nella vita di tutti noi: nessuno può condurre un’esistenza veramente felice se non sa dove andare, perché e come, se non ha la minima idea di quale senso abbia la propria esistenza, se sente che ogni giorno è simile agli altri e che tutto quello che facciamo pare essere fine a se stesso.
Trovare la propria strada è fondamentale quando ci troviamo di fronte alla sofferenza degli altri, o alla nostra, e ci cominciamo a domandare che senso abbia tutto questo, quando ci rendiamo conto che ogni giorno dobbiamo affrontare difficoltà o sfide che ci mettono alla prova.
Possiamo vedere la vita come un viaggio, un’avventura meravigliosa se abbiamo saputo trovare la nostra strada perché se imbocchiamo il percorso giusto ecco che tutte le sfide e le difficoltà cambiano aspetto, diventano prove che vogliamo superare, battaglie che vogliamo vincere. Come uomini e donne abbiamo bisogno di dare un senso ad ogni cosa, di dare un valore a tutto, a cominciare dalla nostra stessa vita.
Nessuno è uguale a noi, mai c’è stato qualcuno che abbia avuto il nostro stesso valore e la nostra stessa vita, né mai ci sarà. Questa unicità deve aiutarci a comprendere che ognuno di noi ha il suo posto nel mondo e che il segreto della felicità è comprendere questo e occupare quel posto, nel miglior modo possibile.
Di strade ve ne possono essere molte, ma una sola è quella giusta, una sola è quella per cui siamo nati, quella in grado di dare senso e valore ad ogni nostro giorno, di farci sentire nel posto giusto al momento giusto: Imparare ad amare.
Qualunque cosa farai, ovunque questo ti porterà, chiunque incontrerai in questo cammino e qualunque saranno le tue scelte quotidiane, dalle più piccole alle più importanti, se sarà l’amore a guidarti, se ogni giorno amerai veramente, quella sarà la strada giusta. Amare non vuol dire attaccarsi a qualcuno e pretenderlo per se facendone il centro della propria vita. Quello è bisogno e dipendenza, non amore.
Amare vuol dire comprendere, rispettare, accettare, ascoltare, pazientare, perdonare, incoraggiare, sostenere, avere cura e interessa, essere corretti e onesti, sinceri e altruisti. Amare non è qualcosa che dobbiamo riservare a pochi eletti ma dobbiamo donarlo a tutti. Non a parole, ma con i fatti.
Trovare la propria strada, quella giusta, significa imparare ad amare tutti e tutto, sempre e ovunque, impegnandosi ogni giorno in questa direzione e agendo sempre mettendo l’amore al centro del nostro interesse. Questa è la nostra strada, questa è l’unica strada giusta.
Di solito siamo propensi a tenere queste due cose separate: gli amici sono una cosa mentre l’amore è sempre inteso come relazione di coppia, visto nel partner. Spesso alcuni si chiedono cosa conti di più tra l’amore e l’amicizia, come se amore e amicizia fossero in competizione tra loro.
Il problema è legato alla convinzione che amanti e amici siano categorie distanti, che amiamo solo una persona e siamo amici di molti. Niente di più sbagliato. L’amicizia è una forma di amore. La sola differenza sta nella nostra errata convinzione di cosa vuol dire amare. Amare, in verità, significa rispettare, comprendere, ascoltare, perdonare, sostenere, accettare, incoraggiare, aiutare, pazientare. Se smettiamo di vedere nell’amore solo una relazione erotica, ci accorgiamo che l’amicizia è fatta di amore incondizionato.
Se oggi si pensa a chi dare priorità, tra amore e amicizia, è solo perché viviamo le nostre relazioni come se fossero degli scambi di interessi e vantaggi: se devo scegliere tra due alternative scelgo quella che mi conviene di più, quella che mi da più vantaggi, che mi fa stare bene. Così abbiamo persone che preferiscono gli amici, che sono sempre stati con noi, e altre che preferiscono il partner, perché senza “amore” non ha senso vivere. Entrambi sbagliano perché non parlano di relazioni umane o di amore, ma di bisogno, interesse e convenienza.
Coloro che si dimenticano degli amici all’inizio della nuova relazione di coppia non sono molto innamorati del partner, ma hanno in lui trovato chi li soddisfi meglio. Chi invece non accetterebbe mai di lasciare gli amici per una relazione di coppia, ottiene più benessere da loro che non dal partner. Ma entrambi sono ingannati dalla convinzione che si possa amare solo una persona (o qualcuna al massimo) alla volta e che l’amore sia qualcosa da ricevere, da ottenere.
Quasi tutti abbandonano un partner che non soddisfa più le loro esigenze o degli amici che non si comportano più come vorrebbero. Ci comportiamo allo stesso modo quando il nostro frullatore non funziona più, quando la macchina comincia a perdere colpi, quando la penna finisce l’inchiostro. Usiamo gli altri per i nostri interessi. Amare è qualcosa di molto diverso.
Non ti amo per quello che mi dai o per i vantaggi che derivano dal nostro rapporto, ma ti amo perché voglio condividere la mia vita con te, perché voglio renderti partecipe della mia felicità, sia tu un amico o un amante. Ogni volta che mi aspetto che gli altri, chiunque siano, si adeguino alle mie pretese (anche se condivise dalla società), non sto amando, non ho ne amici ne amori, ma solo interessi ed egoismo.
Il grande errore nell’amore e nell’amicizia è quello di non porre l’amore al centro delle nostre relazioni, ma di centrare tutto su noi stessi. Così avremo amore o amicizia solo nella misura in cui le persone si adeguano ai nostri standard e alle nostre pretese, dandoci il benessere e la soddisfazione che pretendiamo di ricevere. Che sia amicizia o coppia, sempre di amore parliamo, e l’amore vero è universale ed incondizionato.
Amore e amicizia sono due facce della stessa medaglia, purtroppo in molti la confondono per una moneta e cercano solo di possederne sempre di più.
La sola sicurezza che conta, che dura, è quella che sappiamo costruire dentro noi stessi. La più diffusa, invece, poggia sugli altri, sul denaro che possediamo in banca, sul nostro lavoro, sul successo che abbiamo conseguito, sulla fama e sul potere politico e sociale. Non dura, questa presunta sicurezza, perché la sua base non è stabile: le persone cambiano e sono imprevedibili, nel bene e nel male, il denaro, i beni, il prestigio sono come la marea, vengono e vanno. Non si ricorda nessuno che abbia vinto tutte le battagli e conservato ogni onore per tuta la vita. Queste cose non danno sicurezza, ci illudono solamente.
È come viaggiare di notte su una strada, con la nebbia fitta, e non vedere dove finisce la nostra carreggiata e dove iniziano quella opposta o il sentiero. Per vincere l’insicurezza dobbiamo poter contare su punti di riferimento che ci aiutino a tenere la strada anche in queste condizioni. Se le strisce sull’asfalto sono ben segnate o il guardrail ben presente, non avremo nulla da temere. Coloro che sono insicuri viaggiano di notte, con la nebbia, e non hanno ne strisce ne guardrail a guidarli.
Per vincere l’insicurezza dobbiamo costruire dentro di noi i punti di riferimento che ci guideranno quando non avremo altro a cui aggrapparci e dovranno essere solidi nonostante tutto, validi in ogni circostanza. Essi sono i nostri valori. Come fossero un muro su cui ci poggiamo, se non saranno forti e resistenti non reggeranno il peso e ci ritroveremo per terra.
I valori rappresentano i principi che definiscano per noi ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un valore, alcuni dicono, è una super credenza, ovvero una convinzione riguardo a qualcosa di certo, vero, esatto. Per vincere l’incertezza dobbiamo avere delle certezze. I valori non passano di moda, non hanno imprevisti che li tengono occupati quando abbiamo bisogno di loro, non possono arrugginirsi e non possono venire rubati. I valori sono i punti di riferimento che ci mantengono sulla nostra corsia anche quando nient’altro ci permetterebbe di orientarci, anche, e soprattutto, quando siamo insicuri su quale strada prendere.
Se vuoi vincere l’insicurezza comincia a riflettere su quali sono i tuoi valori, quali sono i principi che ti hanno fatto valutare comportamenti, scelte, azioni, parole. Perché ogni valore detta le nostre regole di comportamento con noi stessi e con gli altri. Se questo fosse tutto per vincere l’insicurezza, però, non ti avrei detto molto di più rispetto a quello che dicono tutti gli altri. C’è però dell’altro: la vera sicurezza, quella che dura in ogni circostanza e malgrado tutto, quella che ti condurrà a vivere una vita felice, nasce solo se i tuoi valori derivano dal principio più importante.
Qualunque siano le tue idee e convinzioni, sappi che al centro della tua vita dovrai sempre mettere l’amore. Ogni valore guida dovrà derivare sempre e comunque dall’amore per essere un principio stabile e giusto. Siamo creature nate per amare e solo ponendo questa natura al centro della nostra vita e facendone derivare ogni nostra scelta, potremo vivere la vita che siamo nati per vivere.
Se vuoi vincere l’insicurezza poni al centro della tua vita l’amore e stabilisci i valori che ti permettono di vivere ogni giorno amando gli altri. Da questo nucleo nascerà la più grande e durevole forza su cui potrai mai contare in vita tua.
Aristotele sosteneva, qualche millennio fa, che il fine ultimo di ogni azione dell’uomo è sempre quello di essere felice. Una vita felice, riteneva il filosofo, era il bene supremo a cui tutti gli esseri umani tendono per loro natura. In sostanza, potremmo quindi dire, siamo nati per vivere felici.
Molti si chiedono come sia possibile vivere una vita felice con tutte le difficoltà che si incontrano, con i problemi a trovare un lavoro o mantenerlo, con la crisi di valori e moralità, con l’egoismo che condiziona negativamente le relazioni e la società, con la violenza che aumenta, la sofferenza di chi manca della salute. Guardano il quadro in questo modo viene realmente da chiedersi se sia possibile vivere una vita felice. Io dico di si.
Ad essere onesti non dobbiamo scordarci che oggi la nostra vita, e quella delle persone che vivono su questo pianeta, è molto migliorata. Neanche sappiamo cosa siano le pestilenze o le carestie che solo un paio di secoli fa falcidiavano le popolazioni, non ricordiamo più i soprusi e le ingiustizie che venivano compiuti senza alcun tipo di difesa per i più deboli, non siamo capaci di capire cosa volesse dire rischiare di morire ogni giorno per malattia, fame o miseria.
Ogni epoca, è vero, ha i suoi problemi, ma vivere una vita felice è una cosa che possiamo sempre fare, quale che sia il mondo che ci circonda, perché la felicità è dentro e non fuori di noi. Seneca diceva giustamente di non voler imparare a difendere i propri beni, ma ad essere felice senza. Per vivere una vita felice dobbiamo fare la stessa ricerca, renderci conto che la felicità non ha nulla a che vedere con le cose che abbiamo (casa, lavoro, relazioni, denaro o altro), ma con quello che siamo. La felicità non si possiede, ma si può essere felici.
Per vivere una vita felice dobbiamo imparare che la felicità o è adesso, qui, oppure non lo sarà mai. Se siamo felici lo siamo con quello che abbiamo, dove ci troviamo, nonostante le difficoltà. Pensare, e illudersi, che saremo felice quando avremo questo, oppure otterremo quest’altro ci priva di ogni speranza di essere felici. La felicità, di fatto, è un viaggio, un modo di vivere, un modo di osservare la vita e il mondo.
Possiamo vivere una vita felice nel momento in cui ci rendiamo conto che abbiamo, e siamo, già tutto per essere felici. Dovremmo imparare che non ci serve nulla per vivere felici e renderci conto che, in questo preciso istante, siamo molto fortunati. Dovremmo comprendere che la felicità risiede nelle piccole cose, nei piccoli gesti e non nei grandi trionfi. Non dovremmo mai confondere l’eccitazione della conquista con la felicità. Basterebbe cominciare ad osservare il bello e non il brutto. Prova con un semplice esercizio: per tutto il giorno cerca sempre aspetti positivi in ogni situazione e persona, guarda sempre al lato utile anche degli eventi che sembrano negativi, cerca l’oro e non il fango.
Vivere una vita felice, ne sono certo, è una nostra scelta e l’unico requisito necessario per compierla è renderci conto che, se volessimo,già adesso potremmo essere felici.
Quasi tutti sogniamo, o abbiamo sognato, la storia d’amore degna di un film, vorremmo incontrare la persona giusta, quella che ci ami e che renda la nostra vita meravigliosa e felice. Quasi nessuno vorrebbe vivere una relazione destinata al fallimento, a quasi tutti piacerebbe poter trovare l’amore senza fine. Molti, poi, non credono neanche più che l’amore possa durare in eterno, che possa superare difficoltà e problemi, resistere al passare degli anni. Io invece sono convinto che l’amore eterno esista e come.
Innanzi tutto è bene chiarire che l’amore romantico, quello dei film e delle favole, quello dove due persone si incontrano e non possono fare a meno l’una dell’altra, quello in cui tutto il nostro mondo ruota attorno alla nostra metà, dove la nostra relazione diventa il centro della nostra vita, quell’amore io non lo considero neanche amore. Di solito confondiamo il bisogno degli altri, la dipendenza che ne deriva il non poter “vivere” senza il proprio partner, con l’amore, ma sono cose assai differenti.
Moltissime delle relazioni che nascono sono infatti figlie del bisogno reciproco e non dell’amore: vivono perché abbiamo bisogno di essere amati, di ricevere attenzioni, di provare sicurezza, soddisfazione e piacere. Spesso una relazione diventa un luogo di scambio dove “amiamo” solo se prima riceviamo quanto ci serve per stare bene. Poi si legge che divorzi e separazioni sono in aumento. Il problema è che una relazione che nasce fondandosi sui bisogni individuali non ha molte speranze di durare nel tempo: durerà solo fino a che gli interessi personali saranno gli stessi, poi ognuno per la sua strada.
Una relazione d’amore, invece, nasce dalla scelta reciproca di amarsi senza nulla pretendere, ma per il solo piacere di amare. Non ci sono attaccamenti, né bisogni. L’amore nasce dove c’è indipendenza (non ho bisogno di te, quindi non devo utilizzarti e posso amarti), dove c’è libertà (potrei vivere senza di te ma scelgo di amarti), dove c’è maturità (non mi servi perché posso essere felice da solo, ma scelgo di amarti per condividere con te la mia felicità). Qui nasce l’amore senza fine.
Crediamo che l’amore non duri e non basti perché chiamiamo in questo modo il bisogno egoistico di soddisfare i nostri desideri e le nostre pretese, perché le nostre relazioni non sono incontri di amore ma di interesse, dove se l’altro soddisfa le mie esigenze io farò altrettanto, viceversa troverò di meglio. Se si tratta di questo tipo di relazioni è naturale che non durino. Interessi e bisogni cambiano e le relazioni crollano inevitabilmente.
L’amore senza fine è quello vero, quello che nasce per dare e non per ricevere, quello che nasce dalla scelta di comprendersi, rispettarsi, accettarsi come si è, incoraggiarsi e sostenersi nonostante tutto, quello in cui i difetti non sono da sopportare ma da apprezzare. Se è Amore sarà senza fine. Di questo non ho dubbi: niente può separare due persone che scelgono ogni giorno, per tutta la vita, di amarsi.
Cos’è la paura? Di solito la si etichetta come qualcosa di negativo, si nasconde agli altri di averla (soprattutto se si è uomini), si considera una debolezza, un’emozione negativa, spiacevole, una sensazione che preferiamo non provare mai. La paura, però, ci insegnano, è qualcosa di utile: quando un cane ha paura evita un pericolo potenziale, quando noi temiamo qualcosa siamo più attenti, evitiamo rischi inutili, utilizziamo più prudenza.
Di per sé la paura non è un’emozione negativa nella comune accezione del termine, ma si tratta di un prezioso alleato con il compito fondamentale di farci tenere gli occhi aperti di fronte ai pericoli. La paura è utile se non diventa una prigione da cui non siamo in grado di uscire. E se questo accade? Ecco come vincere la paura.
Per prima cosa, come sosteneva anche Madame Curie, c’è bisogno solo di capire. Dobbiamo fare chiarezza sulle cose che ci spaventano, comprendere le situazioni che temiamo, osservare meglio le persone . Se abbiamo paura significa che temiamo di subire un danno e l’unico modo per vincere la paura è comprendere se essa è realistica oppure no. Spesso i nostri timori si rivelano infondati, ma non serve dirci che non dovremmo averne, serve invece capire cosa li alimenta e fare chiarezza.
Per vincere la paura dobbiamo poi agire. Un adagio recita che un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non c’era nessuno. La paura ci avverte, il coraggio ci permette poi di agire. Se temiamo di fare brutta figura con i nostri amici dovremmo capire cosa temiamo che accada e poi agire facendo il possibile perché non si verifichi. Se abbiamo paura di sbagliare nello sport dobbiamo comprendere cosa temiamo di non riuscire a fare, migliorarci e tentare. Se temiamo di essere rifiutati dovremmo capire con chiarezza cosa ci preoccupa e poi agire cercando di eliminare quanti più rischi possibili.
Di certo è che non possiamo agire senza correre qualche rischio: avere paura significa considerare le cose negative che potrebbero verificarsi ma poi agire nel miglior modo possibile. Le persone coraggiose non sono prive di paura, ma hanno imparato ad agire comunque. Il terzo consiglio è proprio questo: agire e abituarci ad avere paura. Se fuggiamo innanzi a ciò che ci spaventa finiremo con il perdere completamente l’abitudine a fronteggiare i pericoli. Dobbiamo imparare a guardare in faccia le nostre paure e andare avanti convinti di poterle affrontare e superare.
Per vincere la paura, oltre al coraggio, serve una sana autostima, la convinzione, cioè, che qualunque cosa accada sapremo affrontarla. Se questa convinzione c’è avremo molto meno paura e sapremo comunque affrontare ogni sfida. La peggiore delle paure, infatti, è quella di aver paura. Ricordiamo la parole di Madame Curie: “Non c’è niente di cui avere paura, c’è solo da capire”.
L’autostima è stato uno dei primi temi a cui mi sono interessato e mi sono presto reso conto dell’importanza che essa ricopre per ognuno di noi. Spesso essa viene confusa con il giudizio degli altri, con la nostra capacità di adeguarci al contesto e alle scelte che altri hanno fatto. Il più grande nemico dell’autostima è l’omologazione, la mancanza di pensiero critico, l’adeguamento a pareri e idee esterni senza neanche averli analizzati e soppesati.
Ai tanti consigli che vengono dati di solito, spesso superficiali e legati ad aspetti estetici o comportamentali, quasi a migliorare l’adattamento in un contesto piuttosto che la nostra percezione del valore che ci contraddistingue, preferisco sostituire una soluzione molto più semplice e alla portata di tutti: ricominciare a pensare con la nostra testa. Consapevolezza e indipendenza di pensiero, libertà, sono gli ingredienti di base per un miglior rapporto con noi stessi.
Possiamo fare molto per l’autostima nei bambini. Capacità come il pensiero critico, la consapevolezza e l’indipendenza sono sviluppabili sin da quando sono piccoli e possiamo fare davvero tanto per aiutarli a crescere con una sana autostima. Spesso si confonde questo con l’instillare la convinzione di essere i migliori, di essere infallibili, che il successo sarà a portata di mano. Queste non solo sono illusioni, ma non hanno nulla a che vedere con l’autostima. Se vogliamo accrescere l’autostima nei bambini dobbiamo insegnare loro il contrario di quello che generalmente mostriamo.
Noi valiamo a prescindere da qualsiasi risultato sportivo, sociale o scolastico. Questa è la prima verità che loro devono sapere. Il nostro valore non ha nulla a che vedere con il giudizio degli altri, anche se sono professori, esperti o premi Nobel. La loro stima non deve essere legata ai comportamenti che ci piacciono, all’ubbidire ai più grandi, al rispettare regole imposte. Se vogliamo accrescere l’autostima nei bambini dobbiamo insegnargli a ragionare, a fare domande scomode, a non accettare qualcosa solo perché noi o chiunque altro lo dice.
L’autostima è la nostra capacità di giudicare il nostro valore. Il primo passo è aiutare i nostri bambini a saper valutare, da soli, senza aiuto di nessuno. Non dobbiamo costringere i nostri bambini a scrivere, vestirsi, comportarsi nello stesso modo solo perché è “così che si fa” o per non sembrare ridicoli o sfigati. Dobbiamo insegnare ai nostri bambini a non badare a cosa penseranno gli altri delle loro scelte. Ogni volta che insegniamo ai nostri bambini a non agire per timore della disapprovazione degli altri, feriamo la loro capacità di costruirsi una sana autostima.
Se vogliamo sviluppare una sana autostima nei bambini dobbiamo spiegargli che sono liberi di fare scelte, di compiere azioni, ma che sono responsabili delle conseguenze di queste loro scelte e azioni. Dobbiamo mostrare loro che sono ciò che scelgono di essere, che hanno un potenziale infinito e non devono adeguarsi agli altri rinnegando la loro unicità.
I bambini dovrebbero imparare sin da piccoli che sono liberi di scegliere, che sono persone uniche degne di valore, che sono responsabili della loro felicità, della loro vita. Anche se hanno bisogno del nostro aiuto per crescere, non sono inferiori a noi e non dovremmo mai farglielo neanche pensare. L’autostima nei bambini, non c’è dubbio, dipende dall’autostima che avremo noi che li guideremo fino al momento in cui sapranno spiccare il volo.
Oggi viviamo di fretta: lavoriamo, studiamo, viviamo le nostre relazioni sempre al massimo della velocità, convinti che ogni rallentamento serva solo a farci perdere tempo. Più andiamo veloci, però, meno tempo siamo in grado di dedicare alla qualità della nostra vita, consolandoci con la quantità: più soldi, più lavoro, più relazioni, più amici, più questo e più quello. Dovremmo iniziare a rallentare, fermarci e imparare ad ascoltare.
Mi rendo conto che oggi si è quasi persa questa importante capacità: sembra che ogni discussione, ogni dialogo, deve condurre ad un vincitore, deve eleggere una posizione quale migliore delle altre. Poiché pesiamo il nostro valore con il successo che ci viene riconosciuto, e poiché questo successo è spesso legato all’avere ragione, al dire le cose giuste, a dimostrare che gli altri si sbagliano, ogni dialogo si trasforma in un duello e di ascolto se ne trova sempre meno.
Per imparare ad ascoltare direi di cominciare dal tempo a nostra disposizione: ti consiglio vivamente di ritagliarti ogni girono il tempo per dare spazio a quello che gli altri vogliono dirti. Non che tu debba smettere di lavorare o fare altro, ma devi riuscire a riservare tempo esclusivo ad ascoltare gli altri, e non sfruttare semplicemente tempi morti tra un’attività e l’altre o durante i viaggi. Ascoltare diventa sempre più qualcosa che facciamo come contorno ad altro, io credo che dovremmo imparare ad ascoltare come attività principale ed esclusiva del nostro tempo. Poco, va bene, ma che sia di qualità.
Ti consiglio inoltre di fare silenzio, di non interrompere, di abituarti a lasciare che gli altri possano esprimersi liberamente, senza aggredirli, senza contrattaccare, senza offendere o mettere in difficoltà. Ascoltare richiede che tu non sia sulla difensiva, che tu non stia già pensando a come rispondere o a quello che gli altri penseranno se non ti difendi. Ascoltare vuol dire fare silenzio e dare tutta la nostra attenzione agli altri, cercando di comprendere davvero cosa vogliono dirci, senza mettere tutto sul piano personale. Smettere di identificarci con oggetti o titoli è un passo importante per imparare ad ascoltare veramente.
Ti suggerisco inoltre di abituarti a condividere idee, pensieri, esperienze solo per il gusto di rendere gli altri partecipi, dando modo anche a loro di fare altrettanto. Non sempre dobbiamo parlare per dare un consiglio a fare una lezione o criticare un comportamento. Possiamo invece spiegare agli altri come la pensiamo senza bisogno di avere ragione, metterli a parte di scoperte che abbiamo fatto. Comunicare dovrebbe essere un momento in cui da due colori ne viene fuori un terzo, non uno spazio in cui uno dei due deve scomparire dalla tela.
Imparare ad ascoltare significa capire che non dobbiamo sempre vincere, che non siamo sempre in competizione con gli altri (non dovremmo esserlo mai), che possiamo prenderci del tempo per il piacere di ascoltare e comprendere gli altri, per conoscerli e non correre mai il rischio di darli per scontati. Solo ascoltando possiamo ricordarci che di fronte a noi ci sono persone così complesse che in pochi giorni senza ascolto sincero le ritroveremo estranee.
Ottenere la fiducia da parte delle persone che ci stanno accanto è spesso uno dei principali motivi che ci spinge ad agire in determinati modi. A nessuno, ammettiamolo, piace essere considerato poco degno di fiducia, e vorremmo sempre che le persone che amiamo si fidino di noi, riconoscano quindi il nostro valore, confermino che siamo persone degne di stima. Ottenere fiducia è soprattutto questo.
Autostima e fiducia sono concetti che si legano bene poiché di solito non siamo inclini ad avere stima per persone di cui non ci fidiamo e altrettanto spesso tendiamo a fidarci, invece, di coloro che reputiamo degni dalla nostra ammirazione. Se vogliamo ottenere fiducia da parte delle persone che per noi contano, dobbiamo quindi guadagnarci anche la loro stima.
Il primo elemento che incide profondamente sulla fiducia è la coerenza: tendiamo a d avere fiducia di coloro che rispettano gli impegni presi, che fanno quello che dicono di fare, che realizzano progetti e dimostrano di agire in linea con le proprie parole. Difficilmente, invece, siamo propensi a fidarci di chi non mantiene le promesse, cambia facilmente bandiera, o semplicemente si dimostra molto fumo, e poco arrosto!
Non solo coerenza, però, anche condivisione di valori e principi. Sebbene spesso siano elementi trascurati, i valori sono un punto fondamentale per ottenere fiducia da parte delle persone. Non basta che rispettiamo gli impegni, è importante che condividiamo le regole di base della vita. Ci fidiamo sempre maggiormente di coloro che dimostrano di credere in quello in cui crediamo anche noi, di condividere i nostri stessi ideali e le nostre stessi priorità.
Ad un livello più semplice e superficiale ci fidiamo di chi ci somiglia, ama le cose che amiamo noi, ha i nostri stessi gusti e le nostre stesse preferenze. Sono però i valori, ossia le cose più importanti nella vita, quelle che ci dicono se una cosa è giusta o sbagliata a decidere se avremo fiducia dagli altri. Di noi si fideranno coloro che riconosceranno nel nostro comportamento e nelle nostre priorità i propri valori.
Per ottenere fiducia comincia a chiederti se sei coerente, se ti comporti sempre in modo irreprensibile e affidabile e osserva e scopri quali sono i valori che le altre persone coltivano. Se non condividete gli stessi valori il livello di fiducia che potrai ottenere sarà sempre limitato.
Pensaci un attimo: se tu credi che un certo comportamento sia sbagliato, ti fideresti di qualcuno che invece lo trova corretto? Anche se rispettiamo le idee degli altri, non daremmo mai qualcosa di prezioso a qualcuno che secondo noi non ne comprende il valore. Le persone che condividono i nostri stessi valori sono quelle che si fideranno maggiormente di noi. E viceversa.
Infine non dimenticare una componente fondamentale della fiducia: il rischio. Non c’è fiducia se non in presenza di un rischio. Fidarsi è sempre rischioso perché non potremo mai sapere con certezza che quello che ci aspettiamo dagli altri si verificherà. Dove non c’è rischio non si può parlare di fiducia ma solo di certezze, di prevedibilità. Dove sono coinvolte le persone, tuttavia, possiamo solo scegliere se fidarci, e rischiare, oppure no.
Io credo che valga sempre la pena rischiare perché la fiducia è spesso il migliore investimento che potremo fare su una persona.
In questo articolo voglio spiegarti alcuni principi fondamentali e darti alcuni suggerimenti pratici per diventare leader. Voglio affrontare i temi che sono alla base dell’essere leader. L’idea di fondo è che leader si diventa e non si nasce e la leadership è una serie di capacità che tutti possiamo sviluppare. Tolto quindi ogni dubbio sul fatto che anche tu possa esserlo, in qualsiasi contesto, vediamo come diventare leader.
La prima caratteristica che devi sviluppare è la credibilità. Non può esistere leadership senza di essa. Quando parlo di credibilità intendo la tua capacità di avere la fiducia da parte degli altri. Se le persone verso cui ti poni come leader non ti ritengono credibile, non ti ascolteranno, tanto meno saranno pronte a seguirti. Credibilità fa rima con tre caratteristiche chiave: la coerenza (di cui ho parlato anche in un articolo dal titolo “come essere un leader credibile”), l’interesse sincero verso gli altri e l’equilibrio.
Prima domanda per capire come diventare leader: sei coerente con i tuoi principi e valori? Anche se non c’è nessuno che possa metterlo in dubbio, tu sai sempre se rispetti quello che reputi importante. Prima ancora di poter avere coerenza con gli altri, rispettando la parola data, mantenendo le promesse, rassicurando sulla tua affidabilità, devi essere coerente con te stesso. Stabilisci subito i principi fondamentali per te, le cose che ritieni più importanti. Quindi osservati per una settimana e verifica se sei realmente coerente con te stesso.
Qualsiasi comportamento futuro dipende sempre da quello che è già avvenuto dentro di te. Se definisci i valori di fondo, i principi in base a cui valuti ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e li rispetti ogni giorno, non dovrai forzarti ad essere coerente o corretto con gli altri. Il primo passo per diventare leader è essere tale innanzi tutto verso se stessi. Quando mi comporto come ritengo giusto in ogni situazione, soprattutto quando devo dare conto solo a me stesso e a nessun altro, sono sulla buona strada per diventare un leader realmente credibile.
La coerenza esteriore, quella che emerge nelle relazioni con gli altri, quella che diventa una caratteristica sociale, dipende sempre da questo primo e profondo livello dentro di noi. Prima sei coerente con te stesso, poi diventa naturale e semplice esserlo con gli altri. Fa l’esercizio che ti ho suggerito, verificando se sei coerente con te stesso nella prossima settimana, quindi lavora per rafforzare, o sviluppare, questa tua qualità.
Poniti ogni giorno l’obiettivo di vivere come credi giusto, di fare quel che insegni, di agire per come suggerisci. Non pensare a quello che vedranno gli altri o a fare bella figura, accertati invece di creare una personalità dedita alla correttezza dentro di te, a prescindere da tutti gli altri. Quelle che getti nella solitudine interiore solo le solide basi per diventare un leader.
Sento spesso persone che si lamentano di essere timide e impacciate. In molti mi scrivono perché non sanno come battere la timidezza, come sentirsi più sicuri in certe situazioni sociali, come diventare più estroversi e meno chiusi. In molti, è spiacevole dirlo, credono di “essere fatti così”, di non poter cambiare da questo loro tratto e di essere quindi “condannati” alla timidezza per sempre.
In realtà la timidezza non è né una malattia, né un tratto innato del nostro carattere o della nostra personalità. La timidezza, piuttosto, è un comportamento che scegliamo di tenere in alcune circostanze. Scegliamo in senso lato, ovvero comprendendo anche quelle scelte automatiche su cui di solito non esercitiamo il minimo controllo consapevole e che rientrano in quelle abitudini che ormai sono diventate spontanee. La timidezza è un’abitudine, un comportamento, e come tale può essere modificata.
Per battere la timidezza devi innanzi tutto capire, e convincerti, che si tratta di un comportamento e non di qualcosa che non si può modificare. Innanzi tutto ricordati le situazioni in cui diventi timido e quelle in cui, invece, hai un comportamento “normale”: se fosse un tratto innato dovrebbe essere presente sempre, invece sai benissimo che in certe occasioni non si presenta, mentre in altri ti paralizza. Ti faccio un esempio per capire meglio.
Poniamo che tu lavori per un’azienda. Un giorno il tuo direttore ti informa che terrai una conferenza per la stampa: la tua prima reazione è terrore. Decine di sconosciuti che aspettano da te informazioni e spiegazioni. Sebbene tremante, incerto, magari tutto sudato, tieni questa conferenza. Ogni settimana fai altrettanto per oltre un mese, sicché, alla fine, cominci a sentirti meno a disagio. Poi il tuo direttore ti informa che dovrai tenere una conferenza al giorno. Se sulle prima sei ancora a disagio, dopo qualche settimana cominci ad essere più sicuro, tranquillo e sereno. Hai superato, nel contesto lavorativo, la tua timidezza.
Battere la timidezza, come stai cominciando a capire, significa uscire dalla tua abitudine di persona timida. Hai cominciato ad avere un atteggiamento timido (non sei mica nato timido) una volta ed è probabile che sai stato utile ad evitare una situazione sgradevole. Ripetendolo spesso diventa sempre più semplice e familiare e quindi automatico. Senza neanche accorgertene continui a rispondere sempre allo stesso modo. Questo non solo riduce la possibilità che tu adotti comportamenti differenti, magari estroversi, ma anche che tu sia convinto di poterli tenere. Ti convinci, insomma, non di comportarti in modo timido, ma di “essere” timido.
Per battere la timidezza devi prendere consapevolezza che si tratta semplicemente di una tua abitudine e cominciare a scegliere un nuovo modo di comportarti: come nell’esempio che ti ho fornito, devi metterti nella condizione di comportarti in modo estroverso. Comincia gradualmente, pensa alle situazioni in cui ti senti maggiormente bloccato e individua un modo di agire che sarebbe estroverso, quindi sforzati di metterlo in atto. L’azione concreta è fondamentale. Non devi pensare a battere la timidezza, ma a sviluppare un nuovo comportamento e una nuova abitudine.
Ricorda che le abitudini sono difficili da modificare solo all’inizio, quando devi lavorare consapevolmente per cambiare comportamenti che tendono ad attivarsi da soli, senza che te ne accorgi. La regola d’oro è quella di essere costante, paziente e determinato, non arrenderti di fronte ai primi insuccessi ma insistere fino al tuo obiettivo: scoprirai che non devi più sforzarti di essere estroverso perché ha cominciato ad essere un comportamento per te spontaneo.
Qualunque sfida decidiamo di affrontare, avremo la possibilità di vincerla solo se ci dimostreremo all’altezza del compito. Spesso è proprio la paura di non essere all’altezza di una sfida, di un lavoro, di un impegno, di un problema, che ci frena e ci fa dubitare delle nostre capacità. L’errore peggiore che possiamo commettere, sono sicuro, è confondere il “non essere all’altezza” con il “non sentirci” all’altezza. La differenza è la stessa che separa il giorno dalla notte e che possiamo ritrovare anche quando parliamo di autostima: avere valore e considerarci di valore sono spesso cose molto differenti.
Spesso non ci sentiamo all’altezza di una nuova sfida e finiamo con facilità a credere di non essere all’altezza. In pratica confondiamo le nostre capacità reali, concrete, con la nostra convinzione di possederle o riuscire a utilizzarle. Quando crediamo di non essere all’altezza non tentiamo nemmeno, partiamo sconfitti e convinti di non poter vincere, per cui evitiamo spesso di lottare o “perdere” tempo. La verità è che quasi sempre avremo la forza per le sfide che ci attendono, ma poche volte ce ne rendiamo conto.
Secondo me il problema di non essere all’altezza non esiste: sono convinto che dentro di noi abbiamo tutte le risorse per fronteggiare qualsiasi sfida. Anche se a volte potrebbe volerci del tempo per ottenere un successo, o se dovremo lottare dando fondo a tutta la nostra energia, non dobbiamo mai credere di non essere all’altezza ma ricordarci che abbiamo dentro di noi un incredibile potenziale dal quale attingere.
Potremo avere dubbi e non sentirci all’altezza di una sfida, ma se ricorderemo che possiamo affrontare qualsiasi avversità, che ne abbiamo la forza , se sapremo trovarla e utilizzarla, il dubbio passerà e ci metteremo all’opera. Io sono convinto che possiamo fare veramente cose incredibili se siamo disposti a lottare senza mai arrenderci e con la convinzione che, alla fine, vinceremo la nostra battaglia.
Il vero ostacolo è sempre la nostra convinzione, carente, di poter fronteggiare qualsiasi problema risolvendolo. Quando non crediamo nelle nostre possibilità smettiamo di essere all’altezza. Avremmo si il potere di vincere, ma non utilizzandolo è come se esso fosse del tutto assente.
Secondo me non esistono persone che non sono all’altezza, ma solo persone che credono di non esserlo e che non si sentono in grado di affrontare il prossimo gradino. Se anche tu credi di non essere all’altezza delle prove che la vita ti presenta, sappi che ti sbagli, perché hai tutto quello che ti serve per vincere ogni sfida, devi solo rendertene conto e cominciare ad accedere a questo potenziale. Comincia a credere in te e a sviluppare le 7 Abilità Fondamentali.
Ti scoprirai presto molto più preparato alle sfide che ti attendono di quanto oggi non osi sperare.
La credibilità è, per qualsiasi leader, una componente fondamentale: la leadership stessa si fonda su di essa, sull’affidabilità che abbiamo agli occhi degli altri. Nessuno che sia sprovvisto di questa peculiarità può essere veramente un leader.
Di solito sono le etichette, i ruoli e le posizioni a definire il nostro potere sugli altri: siamo genitori, dirigenti, professionisti o esperti, fratelli maggiori, anziani, e via dicendo. Ci avvaliamo di queste etichette per assicurarci che gli altri facciano, in determinate circostanze, quello che chiediamo loro di fare. In sostanza non facciamo leva sul nostro potere personale ma su quello del titolo che ci poniamo davanti al nome. Quando ci relazioniamo così non stiamo esercitando la nostra leadership e non stiamo sviluppando le nostre qualità ed il nostro potere.
Un vero leader non ha bisogno di anteporre al proprio cognome la scritta “Dott.” o “Prof.” Perché il rispetto e la fiducia non gli derivano da queste apposizioni, bensì dalla sua persona, da chi è lui realmente, da come si relazioni con gli altri, dalla sua autorevolezza acquisita attraverso la sua credibilità. Benone, quindi, come si diventa credibili?
La coerenza è uno dei piedistalli su cui sorge la nostra credibilità: possiamo trovarci ad avere a che fare con persone che hanno scelto al nostra stessa strada condividendo quanto predichiamo, i nostri valori, la nostra visione del mondo. Saremo credibili se quanto diciamo lo mettiamo in pratica per primi. Dobbiamo così non dire mai una bugia se chiediamo altrettanto a nostro figlio, non sminuire oppure offendere mai un alunno se ci aspettiamo rispetto, capire i problemi personali che distraggono un dipendente se ci aspettiamo che i nostri, di problemi, siano tenuti in considerazione.
La coerenza sarà anche la chiave alla mente e al cuore di chi invece non segue le nostre idee perché oggi non le condivide: potremo comunque riuscire ad avere influenza anche su queste persone se ai loro occhi, attraverso la coerenza continua, saremo capaci di mostrarci credibili.
La coerenza è il perno su cui si regge la nostra credibilità, e va intesa in senso molto ampio: qualsiasi cosa diciamo di fare dobbiamo farla, se crediamo in qualcosa dobbiamo dimostrarlo con i fatti, se riteniamo giusto un certo tipo di comportamento dobbiamo essere il migliore esempio disponibile.
Attenzione a non confondere la sciocca coerenza, spauracchio delle piccole menti, con la Coerenza che nasce dal vivere le nostre convinzioni, dal difendere le nostre idee, dal mettere in pratica le nostre certezze. Coerenza non è neanche fingere tutto questo per ottenere approvazione e obbedienza: la coerenza deve partire da dentro, costituire il nostro reale modo di vivere ed essere.
Da questa forma di coerenza, con il tempo e la giusta pazienza, non potrà che nascere una credibilità forte e sicura. Ma la coerenza, ovviamente, deve diventare uno stile di vita senza fine o pause, perché anni possono servirci a costruire la nostra credibilità, pochi attimi bastano per distruggerla. Come detto, essere leader è una responsabilità!
Di solito si pensa che un’autostima bassa significa avere una scarsa considerazione di sé, non avere fiducia nelle proprie capacità, dubitare quindi di se stessi e del proprio valore. Questo, tutto sommato, potrebbe anche essere vero se non fosse che si dice “autostima bassa” quasi sempre in modo inopportuno. Si confonde infatti l’avere una scarsa autostima con il non averla affatto.
Il punto è che la nostra autostima è quasi sempre legata a fattori esterni come il successo, professionale o privato, ai risultati che otteniamo, alle persone che frequentiamo e ai loro giudizi. Molte volte ho sentito dire che i calciatori di una squadra avessero avuto un calo dell’autostima a seguito di un periodo di risultati scadenti. Il punto è questo: spesso non abbiamo un’autostima bassa, ma non l’abbiamo per niente.
Invece di stimarci e dare un giudizio negativo (autostima bassa), ci risparmiamo questa fatica adeguandoci al giudizio (spesso negativo) degli altri. Quando le persone ci criticano e noi accettiamo questi commenti come reali, non abbiamo una scarsa autostima perché non ci stiamo affatto valutando. Stiamo semplicemente accettando come corrette le stime che altri fanno di noi.
Lo stesso vale quando crediamo di avere un’autostima bassa semplicemente per i risultati che otteniamo, per i successi o gli insuccessi, senza renderci conto che questi, ancora una volta, sono legati al giudizio degli altri e non al nostro. Ritenere che il nostro valore dipenda dalle vittorie conseguite significa dire che valiamo solo quando ci conformiamo a quello che gli altri hanno stabilito come positivo. Le regole per vincere, in sostanza, sono stabilite dagli altri e noi utilizziamo queste per capire se valiamo o meno.
In questo modo non ci stimiamo perché preferiamo adeguarci al parere degli altri invece che valutare il nostro valore con la nostra testa. Autostima è proprio questo: valutare da noi, senza condizionamenti esterni, il nostro valore. Ne “la regola dell’autostima” ho spiegato bene come questo processo sia fondamentale e come siamo solo noi gli unici in grado di valutare correttamente il nostro valore.
Avere un’autostima bassa è quasi sempre sinonimo, più che di scarsa autostima, della sua totale assenza, della nostra incapacità (perché non siamo abituati a farlo e non perché non siamo in grado) di valutare in modo autonomo il nostro valore. Questo dipende dalla forza con cui il giudizio degli altri pesa in noi e da quanto incide sulle nostre scelte. Anche se non ce ne accorgiamo siamo spesso influenzati dai pareri delle persone.
Se credi di avere un’autostima bassa comincia a leggere il mio articolo su come rafforzare l’autostima, e ricorda il principio da cui devi sempre partire: ragiona con la tua testa, abituati sempre, ed in ogni occasione, a riflettere, pensare e valutare con la tua mente, ascoltando gli altri ma senza lasciare che questi consigli sostituiscano il tuo pensiero.
Sei anche tu nella nutrita schiera di quelli che quasi ogni giorno, alzandosi la mattina o rientrando stanchi e insoddisfatti la sera, si ripetono “vorrei cambiare lavoro”? Se è così, o se conosci qualcuno che la pensa in questo modo, devi renderti conto che il lavoro che vorresti non cadrà dal cielo. Se veramente vuoi cambiare lavoro devi per prima cosa definire chiaramente cosa vorresti fare.
In molti dicono che vorrebbero cambiare lavoro, ma non hanno idea di cosa, esattamente, piacerebbe loro fare. Sanno magari che gli piace un certo settore, ma non saprebbero dire che mansione o che compiti svolgere. Questa chiarezza è importante perché tu puoi pensare di voler cambiare lavoro, ma finché non hai un obiettivo preciso non potrai mai raggiungerlo.
Stabilisci sin da subito cosa ti piacerebbe fare, partendo si dal settore che ti interessa, ma andando a definire con precisione che mansioni vorresti svolgere, in che modo ti piacerebbe impegnare la tua giornata, che ruolo professionale vorresti ricoprire. Se questi elementi non sono chiari finirai per commettere un errore molto comune: cercare un lavoro senza sapere bene quale. In questo modo non sei in grado né di focalizzare le tue energie né di preparare curricula, lettere di presentazione e auto-candidature efficaci.
“Vorrei cambiare lavoro” deve diventare “voglio fare questo lavoro, per questa azienda”. E si, non basta che stabilisci che lavoro vuoi fare, devi anche cominciare ad orientarti tra le alternative disponibili, scoprire quali sono le realtà in cui potrebbero assumerti proprio per quel compito. Ancora una volta è la parola “precisione” che fa la differenza. Solo sapendo cosa vuoi fare e dove puoi essere veramente efficace. Se all’azienda a cui ti proponi vuoi spiegare perché vuoi lavorare con loro e come potrai effettivamente essere utile, devi prima di tutto saperlo tu. Questo vuol dire che non tutte le aziende sono uguali e che devi cominciare a capire in quali realtà preferiresti lavorare e perché.
Un elemento ancora fondamentale è sapere chiaramente quali vantaggi avranno le aziende a cui ti proponi nell’assumerti. Non conta tanto l’esperienza (quando dici “vorrei cambiare lavoro” io penso che magari vorresti farne uno anche totalmente differente dal tuo attuale) ma la tua creatività, la passione, l’interesse sincero. Questo significa che la scelta giusta, se vuoi cambiare lavoro, è quella di fare delle tue passioni la tua prossima occupazione.
Quando lavori per passione e non per denaro, la differenza in fatto di soddisfazione, serenità, realizzazione personale e professionale, ma anche di performance, è indiscutibile. Scegli di coltivare la tua passione, scegli di inseguire i tuoi sogni e ti troverai ad avere quel qualcosa in più che fa la differenza quando ti proponi per un nuovo lavoro.
Se finora hai pensato “vorrei cambiare lavoro” ma non hai mai preso “il toro per le corna”, allora adesso è arrivato il momento di agire: comincia a fare chiarezza su cosa vuoi fare, come e dove. Da qui nasce l’energia indispensabile per trasformare concretamente la tua vita.
Quanto incide un curriculum quando presentiamo una candidatura di lavoro? Dipende. Dipende dal tipo di curriculum che stiamo presentando e dipende dal tipo di azienda e dal tipo di posizione che stiamo cercando. In genere, tuttavia, si dice che il curriculum abbia scarsa importanza e non sia tenuto in grande considerazione dalle aziende che selezionano. Ma questo è vero se non sappiamo scrivere un curriculum che sia in grado di attrarre l’attenzione di chi deve leggerlo.
Di risorse in rete e non vene sono molte, tanti sono poi i professionisti che per lavoro, e a prezzi contenuti, correggono o riscrivono un curriculum in modo ottimale. Avendo però constato personalmente che le idee sono varie e che spesso le soluzioni proposte sono poco efficaci (da ex selezionatore posso dire che non li trovo molto utili di solito) ho pensato fosse il caso di dare alcune linee di principio per scrivere un curriculum non buono, ma convincente. Se un buon curriculum lo sanno scrivere in molti, uno convincente invece è più raro trovarlo.
Il punto di partenza è capire che un curriculum serve a spiegare a chi lo legge, quindi l’azienda da cui vorremmo essere assunti, chesiamo la persona giusta per loro. Le nostre esperienze professionali, quelle formative, le nostre abilità e capacità, ma anche ( e a volte soprattutto) le nostre passioni ed i nostri interessi devono spiegare in modo chiaro che abbiamo le carte in regola per quel posto di lavoro.
Se invece inviamo un semplice elenco di esperienze, per di più scontato, banale e superficiale, non ci stiamo facendo un favore, anzi, aumentano le possibilità che il nostro bel curriculum venga letto distrattamente in pochi secondi e scartato.
Prima regola è quindi chiedersi: se io leggessi il mio curriculum, come selezionatore, avrei modo di capire se sono la persona giusta?
Chiediti con molta onestà: leggendo il mio curriculum, mi renderei conto delle competenze, della capacità del valore che posso portare alle aziende a cui lo invio?
Attenzione che non sto parlando di forma, titoli, termini o sinonimi da utilizzare, ma di concetti, contenuto, spiegazioni concrete da comprendere. Mettiamola in modo molto semplice e lineare: se tua nonna leggesse il tuo curriculum (o la nonna di qualcuno che conosci) capirebbe che esperienza hai fatto in pratica? Saprebbe dire cosa sai fare concretamente? Cosa realmente hai imparato durante il tuo percorso di formazione?
Se dal tuo curriculum capisco solo come si chiamano le aziende per cui hai lavorato o le mansioni che hai svolto (in teoria), se mi è chiaro solo il nome dei centri di formazione dove hai studiato o il titolo che hai attaccato al muro, allora il curriculum non serve a molto. Comincia a fare questa analisi, quindi leggi i prossimi articoli in cui andrò nei dettagli.
Il dizionario Devoto-Oli da, come definizione di amore, questa spiegazione: “Dedizione appassionata, esclusiva ed istintiva nei confronti di una persona, che porta a condividere con questa sentimenti ed emozioni e a desiderarla dal punto di vista fisico”.
La definizione di amore che invece fornisce wikipedia è questa: “un sentimento intenso e profondo, di affetto, simpatia ed adesione, rivolto verso una persona, un animale, un oggetto, o verso un concetto, un ideale. Oppure, può semplicemente essere un impulso dei nostri sensi che ci spinge verso una determinata persona”.
Si tratta di definizioni di amore per certi versi simili, per altri differenti, ma hanno una cosa su tutte che li accomuna: non definiscono cosa sia l’amore, ma solo come lo si viva e intenda oggi, giusto o sbagliato che sia. Sono quindi definizioni che si adeguano al contesto invece di formarlo.
Queste due definizioni di amore, a mio avviso, non definiscono affatto l’energia più potente che esiste in noi, ma semplicemente spiegano come oggi viviamo questa emozione. Inoltre viene data un’immagine di questo sentimento del tutto passiva (“impulso che ci spinge” o “dedizione istintiva”). In sostanza siamo allo stesso livello degli animali.
Wayne W. Dyer da una definizione di amore differente, che recita: “la capacità e volontà di permettere alle persone a cui si vuole bene di essere ciò che vogliono essere, senza resistenza o pretesa alcuna che esse diano soddisfazione”. Qui andiamo molto meglio, perché stiamo parlando di persone, finalmente.
Il grande errore, a mio avviso, è confondere l’istinto sessuale, o il bisogno degli altri, con l’amore. L’amore non è mai egoista, l’amore è incondizionato, non pone mai compromessi e non avanza pretese. L’amore non gode del male. Soprattutto, l’amore è un dono che concediamo agli altri, senza distinzione, senza pregiudizi. Non amiamo veramente, se amiamo solamente alcuni e non altri.
Oggi la definizione di amore comune è vittima di un modo di vivere l’amore ingannevole: chiamiamo amore quello che amore non è. A volte mi dicono che per come intendo io l’amore mi converrebbe trovare una parola differente, meno abusata. Non lo faccio per un semplice motivo: l’amore è qualcosa di molto lontano dal sentire comune, non ho bisogno di trovare una nuova parola perché Amore è la parola giusta, sbagliato è l’uso che oggi se ne fa.
La mia definizione di amore potrebbe quindi suonare così: “Dare agli altri tutto quello che vorremmo ricevere, senza pretendere nulla, senza chiedere niente in cambio, per il solo piacere di amare”.
L’amore è un dono. L’amore include il rispetto, la comprensione, la pazienza, la generosità, la calma, la verità, l’onestà, il perdono e molto altro. Una vera definizione di amore dovrebbe considerare proprio questo, che l’amore, quello vero, non ha molto da spartire con il nostro modo di vivere spesso egocentrico e insicuro.
Mi auguro che tra qualche anno, anche i dizionari, comincino a definire l’amore come un dono e non più come un semplice istinto animale.
La sicurezza è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo: tutti la cerchiamo. Ma di cosa si tratta esattamente? Per renderla molto semplice, possiamo dire che la sicurezza è la certezza che procediamo nel modo giusto, siamo sicuri quando sappiamo cosa scegliere, che strada prendere. Essere sicuri, in pratica, significa sapere cosa è giusto e cosa è sbagliato in ciascuna situazione. Ciò che ci da sicurezza determina quindi le nostre scelte.
Dalla mia esperienza personale e professionale posso garantirti che tutti possiamo sviluppare una solida e stabile sicurezza, in modo che essa non venga messa in crisi da nulla. Questa sicurezza, però, non può che essere dentro di noi, nella nostra mente, e non all’esterno e nel mondo.
Di solito la sicurezza coincide con un lavoro, delle persone vicine, il denaro a disposizione, la saluta e via dicendo. Per loro stessa natura, osservandole bene, queste cose sono tutte soggette ad un destino comune: passano e finiscono. Nessuna di esse, infatti, può rappresentare veramente un punto di riferimento stabile e duraturo, qualcosa che ci dia sicurezza per tutta la vita. Ogni cosa che possiamo possedere, difatti, non può renderci sicuri poiché è, essa stessa, transitoria.
I soldi possono finire o venire rubati, le persone muoiono oppure prendono strade differenti, il lavoro può andare in crisi la salute può peggiorare anche se abbiamo seguito le regole consigliate dai migliori medici. Niente che possiamo “ammassare” rappresenta per noi una forma autentica di sicurezza, anzi, proprio perché non sappiamo se lo avremo anche domani, aumenta, invece che controllare, la nostra ansia e la nostra insicurezza.
Come acquisire sicurezza, dunque? Per prima cosa divenendo consapevoli che la vera sicurezza che non va perduta è quella interiore: dobbiamo maturare una stabilità all’interno di noi stessi. La sicurezza la dobbiamo attingere, innanzi tutto, dai nostri valori, dai principi guida che ci dicono cosa è giusto e cosa non lo è. Pensaci bene: essere sicuri vuol dire, infondo, sapere cosa fare e come farlo. I valori ci guidano proprio in questo. L’incertezza nasce sempre quando non abbiamo delle linee guida da seguire.
Contrariamente al denaro o al lavoro, ad esempio, i valori che ci guidano non cambiano e non si perdono, sono stabili e indipendenti agli eventi della vita. Conosci i tuoi valori? Sono punti di riferimento concreti o semplici parole che citi per mostrarli agli altri?
I valori, tuttavia, dipendono da qualcos’altro: essi sono la conseguenza, o dovrebbero esserlo, di ciò che per noi conta di più nella vita. Quello che noi poniamo al centro della nostra esistenza, ciò a cui noi attribuiamo il massimo valore diventa il terreno su cui costruiamo la nostra vita. Se questo terreno è solido potremmo trarne grande sicurezza. Inoltre esso rappresenta ciò dona senso e significato alla nostra esistenza.
La sicurezza è, in pratica, una fede sicura in qualcosa, un credere che, qualsiasi cosa avvenga, noi potremo contare su un punto fermo. Questa sensazione di continuità e stabilità è ciò che per noi è fondamentale, ma potremo averla solo ed esclusivamente se faremo affidamento su ciò che non passa e non varia in funzione delle mode o dei gusti del momento.
I principi, o se vogliamo i nostri valori, sono le basi solide su cui costruire la nostra vita e la nostra sicurezza. Su tutti, però, l’amore, inteso in senso universale e totale, è quello fondamentale, la scelta migliore su cui basare la nostra vita, l’unica da cui attingeremo la più forte e autentica sicurezza. E questa non potrà portarcela via nessuno.
Oggi sono molti i professionisti che si trovano a dover svolgere un’attività d mediazione. Penso ad esempio agli avvocati, vista anche la riforma civile che prevede obbligatoriamente la conciliazione nei processi, oppure a figure che in maniera informale hanno interesse a mediare tra due parti contendenti, come i giudici nelle sentenze di separazione, gli assistenti sociali, i politici. Non solo, ma tutti quanti noi, nella nostra normale giornata lavorativa, ci troviamo spesso a dover mediare tra opposte visione per il bene comune, per il raggiungimento degli obiettivi fissati.
Ciò che conta in questi casi è saper come impostare in maniera efficace un confronto al fine di raggiungere quell’accordo fondamentale per tutte le parti coinvolte. Voglio quindi mostrarti quali sono i principi fondamentali che sono alla base di un processo di mediazione efficace e vincente.
Prima di tutto ricordarsi che non esistono situazioni in cui qualcuno deve necessariamente perdere, situazioni cioè dove il risultato finale deve essere favorevole a qualcuno ma decisamente negativo ad altri. La mentalità giusta per fare una buona mediazione è sempre quella di considerare che una soluzione ottimale, in cui nessuno venga sconfitto, c’è sempre e va trovata. Da questo deriva il fondamentale assunto che la mediazione dovrebbe prevedere una soluzione in cui si vince tutti. Ci sono casi in cui è indispensabile che sia così, penso ad esempio ad un contenzioso tra i genitori per l’affidamento del figlio, oppure alle contese per i cambiamenti contrattuali tra lavoratori e imprenditori. In questi, come in molti altri casi, è necessario trovare un accordo vincente per tutti.
L’attenzione deve essere sempre focalizzata non sulle posizioni dei partecipanti, ma sui reciproci interessi. Non conta da dove veniamo, conta solo dove vogliamo andare, che tipo di obiettivi vogliamo raggiungere. Se un mediatore non ha chiaro che interessi stanno perseguendo le parti, sarà molto difficile arrivare ad un accordo realmente vincente per tutti. A questo presupposto si lega, naturalmente, la disponibilità di tutti i partecipanti alla trattativa di essere trasparenti e onesti, manifestando chiaramente quali sono gli interessi in gioco.
Un buon processo di mediazione passa anche attraverso la comprensione e formalizzazione delle regole dei partecipanti. Il detto “patti chiari e amicizia lunga” non potrebbe essere più adeguato: bisogna chiarire aspettative e vincoli, modalità accettabili e inaccettabili. Il mediatore deve mettere sul piatto le regole che ognuno sta seguendo o seguirà nella trattativa, i limiti oltre i quali vuole o può spingersi. La regola, è bene ricordarlo, nasce per tutelarci, di conseguenza bisogna sempre scavalcarla, specie quando entra in conflitto con norme altrui, e capire cosa nasce per tutelare.
Infine è importantissimo, per il mediatore, comprendere quali siano le alternative possibili per ogni persona coinvolta. Tanto migliore è un’alternativa all’accordo, tanto maggiori saranno sia il potere della parte, sia la sua disponibilità a far saltare la mediazione.
Molti di questi fattori non sono, ovviamente, sotto il controllo del mediatore di turno, ma egli deve non solo comprenderli, ma anche saperli utilizzare a dovere. Ad ognuno di essi dedicherò un articolo specifico per dare idee e consigli su come condurre una mediazione efficace e soddisfacente per tutti.
Certamente risponderesti che ti auguri possano studiare e trovare un buon lavoro, magari sposarsi o incontrare comunque la persona giusta e costruirsi una famiglia, avere il denaro per mantenerla e vivere sereni, ottenere il successo, perché no, l’approvazione e la stima delle persone e vivere una vita priva di preoccupazioni e malattia. Forse avresti desideri differenti, o magari un elenco più lungo, resta il fatto che se li osservi, qualunque sia la tua personale aspirazione, vorresti che siano felici.
Poi possiamo discutere ore su cosa voglia dire tutto questo, su come tu intenda la felicità o su come la intendano (dovrebbe essere più importante) i tuoi figli, ma una cosa è certa: non potranno mai essere felici se non saranno anche liberi. La libertà dovrebbe essere uno dei fondamenti di qualsiasi forma di educazione. La domanda a questo punto è: “Stai educando i tuoi figli ad essere liberi?”.
Cominciamo ad osservare da vicino cosa significhi essere veramente liberi: La libertà è la nostra facoltà di scegliere, siamo liberi nel momento in cui siamo capaci di scegliere senza essere condizionati da fattori esterni. Sebbene saremo sempre esposti alle influenze sociali, questo non vuol dire che siamo in condizione di scegliere se adeguarci o meno a queste pressioni. Si tratta quindi di influenze e non di condizionamenti. Quello che devi capire come genitore, o come educatore, è che non esiste nessun limite alla nostra libertà di scegliere.
Una persona che non sa decidere cosa indossare senza sentire il parere degli amici, del partner o della moda del momento, una persona che non sa rinunciare a qualcosa di piacevole oggi per un risultato migliore in futuro, una persona che non sa gestire le proprie abitudini e non riesce ad ottenere ciò che vuole, una persona che si comporta come ha sempre fatto e non riesce a cambiare il proprio atteggiamento, tutte queste personenon sono libere.
Non siamo liberi ogni qual volta rinunciamo a qualcosa che vorremmo fare perché non “si fa”, perché non è un comportamento che “si addice” a persone come noi, al nostro status sociale, alla nostra posizione economica, ogni volta che rinunciamo a delle scelte perché gli altri disapproverebbero o verremmo messi in ridicolo, ogni volta che nascondiamo i nostri desideri per paura di venire allontanati dagli altri, ogni volta che non alziamo la mano per parlare, che teniamo per noi un dubbio che temiamo ridicolo, che non diamo un consiglio per non sembrare ingenui o saccenti, ogni volta che mentiamo per evitare un confronto o un rimprovero, ogni volta che rinunciamo ad una parte, pur piccola, di noi stessi per “inserirci meglio” nella società, non siamo liberi.
La libertà si insegna in due modi:
Essendo noi stessi esempio pratico di persone libere, capaci di essere come vogliamo essere e non come gli altri ci impongono e capaci di dare la stessa libertà a chi ci sta vicino.
Educando gli altri a scegliere, senza imporre la nostra visione, senza forzare verso i nostri desideri e le nostre pretese, senza pretendere rispetto, obbedienza, ma insegnando a pensare con la propria testa in qualsiasi situazione.
Non possiamo educare alla libertà, come all’amore, nessuno se prima noi stessi non ci impegniamo per essere persone libere o capaci di amare. Come genitori siamo guide e le guide non possono condurre nessuno in un territorio per loro sconosciuto.
Quando spiego alle persone come io concepisca l’amore, cosa vuol dire amare secondo me, la prima reazione è di un profondo scetticismo: inizialmente quello che dico suona bene, tuttavia pare abbastanza diverso dal sentire comune e in definitiva sembra essere più un’utopia o una teoria che non qualcosa ci concreto. Credo sia importante che tu capisca che amare significa dare senza pretendere nulla in cambio, e che questa sia la vera e sola forma di amore, pertanto direi proprio che è possibile. Andiamo con ordine
Generalmente confondiamo l’amore con il bisogno: diciamo di amare coloro da cui dipendiamo per le emozioni positive che vogliamo provare e per la nostra felicità. Si tratta di dipendenza perché senza queste persone, crediamo, non potremmo vivere. In realtà quasi tutti abbiamo concluso una relazione con questa convinzione, salvo poi abituarci prima a stare soli, poi ad una nuova storia. Inoltre associamo, proprio per questo attaccamento, l’amore (che in realtà è bisogno) alla sofferenza: il problema è che soffriamo solo per timore di perdere qualcuno. Per puro egoismo.
Il vero amore non chiede nulla, non nasce per capriccio. Amare vuol dire donare all’altro, senza pretendere di essere ricambiati, senza chiedere felicità, accettazione, compromessi. Oggi invece funziona così: “ti amo se tu…” e qui ci possiamo mettere “mi rendi felice, mi prometti che non mi tradirai, mi darai una casa in cui vivere, mi farai sentire importante…”. Mi chiedo: se non ti rendo felice smetti di amarmi? Se così fosse (e così infatti è) non vorrebbe dire che, lungi dall’amore, tu hai bisogno di me per essere felice? E che se non posso darti questo lo cerchi altrove? Già, ma dove esiste un comportamento simile? Aspetta…ah si, al mercato!
Non è che amare per il solo gusto di amare sia impossibile, come molti temono, è che siamo talmente immersi nella nostra cultura da non considerare che possa esistere un modo differente di vivere una relazione di coppia. Il sistema capitalistico dove tutto viene scambiato per uso personale, per un proprio interesse (ti amo sole se tu…) non è il modo migliore di vivere una relazione, anzi, nessuna relazione. Siamo così convinti che l’amore sia questo bisogno e questo attaccamento che crediamo assurdo che in realtà non si tratti di amore. Questo significherebbe una serie di cose: che non abbiamo capito nulla dell’amore finora; che le nostre relazioni si sono sempre basate (dopo i primi esigui lampi di amore) sulla dipendenza e non sull’amore; che abbiamo vissuto credendo di amare il nostro compagno, mentre ci ingannavamo. Amara la pillola, ma è bene prenderla.
Amare in modo sinceramente disinteressato è possibile, ma ci sono delle condizioni:
Siamo convinti che le emozioni dipendano dagli altri o dagli eventi, dipendendo emotivamente da tutto fuorché da noi stessi. Finché crederemo questa sciocchezza non saremo mai capaci di amare
Siamo persuasi che in una relazione dobbiamo ricevere qualcosa in cambio, deve esserci parità. Vero, ma l’unico scambio è la volontà incondizionata di amarsi l’un l’altro. Niente di più.
Siamo certi che non si possa vivere felici senza un compagno di vita. E dove lo abbiamo letto? Non è vero, non solo, ma se non siamo felici da soli, con noi stessi, non saremo mai felici con nessuno.
Siamo stati educati a credere che gli uomini sono essenzialmente egoisti e malvagi e che nessuno fa niente per niente. Altra bugia. In un sistema come il nostro è vero, ma la natura umana è diversa da come la nostra cultura ci educa e modella.
È possibile amare incondizionatamente? Certo, ma solo se siamo liberi, sicuri di noi e indipendenti. Solo se ci laviamo via le costrizioni culturali assurde che la nostra società ci propone, solo se ci rendiamo conto che non vediamo e non abbiamo quasi mai visto l’uomo per come potrebbe amare, ma solo per come non ha mai imparato a farlo, e abbiamo confuso questo con l’amore. Imparare ad Amaresarà il più grande cambiamento mai visto sulla faccia di questo pianeta. E mi auguro di essere presente all’evento!
Parlando in generale della motivazione, ho cercato di rendere chiari e comprensibili i presupposti fondamentali, ben sapendo che nella pratica le cose sono più complesse (non più difficili). In questo caso mi rivolgo a quanti ricoprono un ruolo di comando in ambito lavorativo e vogliono essere dei leader e non dei semplici “superiori”. Oggi più che mai è fondamentale riuscire a motivare i propri collaboratori, e non è possibile riuscire in questo se non si ha messo da parte il proprio status e si è indossati i panni del vero leader.
Cosa interessa ai tuoi collaboratori?
Questa è una domanda chiave. Se non sai cosa interessa loro, cosa realmente li spinge ad agire e li motiva a comportarsi in un certo modo, come potrai aiutarli a raggiungerlo? Ricorda che non ha senso, mai, scindere la persona dal lavoratore. Prima viene l’uomo, o la donna, poi il dipendente. Devi scoprire cosa vogliono ottenere al di là del denaro: importanza? Successo? Prestigio? Senso di appartenenza? Orgoglio? Senso di scopo? Il senso di dare il proprio contributo per un giusto motivo?
Come sperano di ottenerlo?
Se comprendi cosa vogliono devi anche capire come loro credono di riuscire ad averlo. Si aspettano di averlo lavorando il meno possibile? Sono convinti che fare gli straordinari sia la soluzione migliore? Pensano che essere onesti sia il modo giusto? O credono che devono ridurre al minimo ogni possibile incomprensione e punizione (magari mentendo)?
Come puoi aiutarli?
Dalla comprensione di queste prima due domande, nasce la tua azione forte come leader: la gente è motivata, ricordalo, dalla possibilità di raggiungere un risultato che desidera, tu puoi aiutarli a farlo? Benone, allora devi mostrare loro come. Non come loro aiuteranno te, ma come tu aiuterai loro. Devi metterti letteralmente al loro servizio e dare tutto il tuo aiuto perché ottengano quello che stanno inseguendo. Quando vuoi avere collaboratori motivati devi rendere il lavoro che chiedi loro, la soluzione migliore per raggiungere i loro obiettivi personali. Come leader hai il segreto della motivazione nella tua mano. Sta a te decidere di dare azione concreta a tutto ciò. L’alienazione moderna, in parte, altro non è che lo svuotamento di significato del lavoro, l’impossibilità di raggiungere i traguardi importanti attraverso di esso.
Come leader vuoi motivare i tuoi collaboratori a diventare un team vincente e a raggiungere i risultati migliori? Mostra loro come, veramente, potranno farlo attraverso il loro lavoro, ed essi ti seguiranno. Ricorda che le persone sono pronte a dare tutto per quello in cui credono, se sarai un leader credibile, loro saranno collaboratori eccellenti.
Probabilmente capita a tutti, ma in particolare succede ai genitori alle prese con i figli che crescono o ai professori che tentano di gestire e guidare una classe di giovani scalmanati che tutto pensano meno che allo studio, di trovarsi di fronte alla difficoltà di convincere i giovani a certi comportamenti. Ma ai genitori, sicuramente, il problema di figli che si comportano “male” o che non fanno quel che “dovrebbero” sta sicuramente molto più a cuore. Ovviamente non si tratta di genitori che vogliono imporre le loro idee su altri, ma di quelli che si rendono conto dell’importanza di riuscire ad educare bene i propri figli, che hanno a cuore il loro benessere e vorrebbero spronarli a fare cose che , a loro avviso, sarebbero positive e li aiuterebbero a vivere bene.
Spesso ci si scontra con un muro, non si ha di fronte persone con cui sembri possibile parlare ma appare del tutto immotivata e irrazionale la determinazione dei figli a fare come dicono loro senza curarsi troppo del parere di mamma e papà. Quando poi si parla di situazioni e argomenti delicati la preoccupazione dei genitori cresce per via della paura che i figli facciano qualche stupidaggine oppure che perdano il loro tempo ritrovandosi a pentirsi tra qualche anno, quando finalmente capiranno. Come fare allora per convincere i ragazzi a seguire certi consigli?
Innanzitutto ognuno dei genitori deve accettare, specie ad una certa età, che ci sia un conflitto di vedute e che i figli pretendano la loro indipendenza: per questo è importante rispettare le decisioni dei propri ragazzi. “Come, rispettare idee assurde e autodistruttive???” potrebbe essere la reazione di molti. A meno che non vogliate imprigionarli in camera o tenerli lontani dal resto del mondo fino a che non cedano (e non lo faranno mai del tutto) è proprio quello che va fatto: accettare e rispettare le scelte dei propri figli come fareste per quelle di un amico o una sorella. È giusto che i giovani adolescenti comincino ad essere trattati come adulti.
Non sto incitando a far prendere le decisioni a ragazzi che non sanno ancora assumersi responsabilità ma di aiutarli a farlo: finché non si rispetta la loro opinione li si mantiene sempre bambini. Per aiutare i propri figli a crescere bisogna dare importanza alle loro idee, rispettarle anche se non le si condivide e dare consigli. Il problema di sempre. Come si fa a dare consigli che vengano ascoltati? Sicuramente avrai notato che spesso non ti danno retta ma se viene suggerita la stessa cosa da un amico o un adulto esterno alla famiglia, la fanno. Ti sei mai chiesto come mai? Si tratta di credibilità.
Come genitori si tende sempre a dare poca importanza ai pareri dei figli, a sottovalutarne le capacità perché li si vede ancora bambini, a non credere che siano in grado di scegliere e valutare e, soprattutto, a voler controllare e limitare. La credibilità si fonda sul rispetto e sulla fiducia: non dire a tuo figlio cosa deve fare, cerca invece di capire cosa vuole ottenere. Non serve a nulla scontrarsi per come deve affrontare un compito e deve comportarsi in casa, devi invece capire cosa spera di ottenere con il suo comportamento.
Una volta che hai scoperto, ma fai prima a parlarne chiaramente e saperlo dal diretto interessato, è il momento di fare il genitore: mettere in luce gli eventuali contro e pro di questo obiettivo (in questo bisogna imparare ad essere obiettivi!) e dando suggerimenti per raggiungerlo. Se i ragazzi vedono che vogliamo aiutarli a realizzare i loro sogni, invece che tarpargli le ali, se si rendono conto che rispettiamo le loro idee e vogliamo essere dalla loro parte e non come giudici del loro operare, allora avranno fiducia, ci daranno così la possibilità di aiutarli e guidarli. Questo comporta una fatica in più, è vero, ma non ci servirà a nulla la loro obbedienza, ci serve invece il loro rispetto.
Se lavori e vuoi fare carriera devi tenere a mente alcuni consigli utili e comportamenti fondamentali per avere successo nel mondo del lavoro.
Ecco un elenco di alcuni comportamenti fondamentali per il tuo successo professionale:
Correttezza: ossia comportarti secondo le regole, rispettando i tuoi colleghi e superiori. Il modo migliore per farsi notare è quello di essere la persona con cui tutti vorrebbero avere a che fare: rispetta gli impegni che prendi (evita di prenderne quando non sei sicuro di portarli a termine), aiuta chi vedi in difficoltà trai tuoi colleghi, cerca di essere sempre trasparente e onesto verso tutti.
Competenza: significa che devi saper fare bene il tuo lavoro, ma non solo, devi saper migliorare continuamente. Formazione non significa solo partecipare a corsi istituzionali, ma leggere le riviste del tuo settore professionale, leggere i libri di altri professionisti come te, osservare i tuoi colleghi e cogliere gli aspetti positivi del loro modo di lavorare. Soprattutto avere la mentalità dell’apprendista, ossia voler sempre imparare da tutti.
Disponibilità: significa che sei sempre pronto a dare una mano, a fare un lavoro extra, che sei disposto ad aiutare chi ha bisogno di te, ad anteporre il bene comune a quello tuo personale. La regola è semplice: quando vedi che puoi fare la differenza, anche minima e anche se non è compito tuo farlo, agisci. Tieniti sempre pronto a dare il tuo contributo, specialmente quando non ti viene richiesto espressamente ma ti rendi conto che sarà utile. Bada a non confondere questa qualità con il martirio professionale!
Umiltà e umanità: tratta le persone con cui lavori con rispetto. Considera tutte le persone, che siano clienti, superiori, colleghi o semplici inservienti, allo stesso modo, con rispetto e umanità. Non ti considerare superiore ad altri e non trattare con sufficienza chi ha una mansione meno “nobile” della tua, soprattutto ricordati di parlare con le persone e non con il loro mestiere. Dimostra sempre umanità nei confronti di tutti: impara i nomi di coloro con cui lavori, rispetta le loro idee, chiedile e tienine conto.
Credo che in queste quattro categorie rientrino tutti gli elementi chiave per avere successo nel lavoro. Si tratta di atteggiamenti e competenze che possiamo sempre acquisire e fare nostre. Anche quelle che possono sembrare meno rilevanti, ti posso garantire per esperienza, faranno realmente la differenza. Ricorda che non devi fingere questi comportamenti ma devi fare in modo che diventino parte integrante del tuo modo di essere. Buon lavoro.
“…lui vive in te
si muove in te
con mani cucciole
è in te
respira in te
gioca e non sa
che tu vuoi buttarlo via…”
Quasi venti anni fa ascoltavo questa canzone, ma non so se mi ero mai reso conto del tutto, prima di adesso, del meraviglioso messaggio che stava lanciando. Un conto e sentire le parole e capire cosa dicono, un altro è diventare consapevoli che parla di una verità fondamentale: dobbiamo imparare ad amare. Sempre.
Non ha alcuna importanza il gusto per la musica (peraltro assolutamente piacevole) o per il cantante, in questo caso Nek, al secolo Filippo Neviani, ma ciò che conta è il senso che le parole trasmettono. Impossibile non condividere la semplicità di frasi che parlano di attimi, possibili, ma forse solo sognati e immaginati.
Questa che fece parlare criticamente movimenti femministi e abortisti, a mio avviso, è un vero e proprio inno alla vita, e quindi all’amore. La canzone esprime un concetto fondamentale, che condivido, la vita è sempre la scelta giusta. Sempre.
Su cosa si basano le nostre relazioni? Diamo tutti per scontato che le coppie siano unite dall’amore e che sia questo importantissimo sentimento il motivo per cui due persone decidono di condividere le proprie vite. Sarà vero? Se lo fosse, per quale motivo così tante relazioni naufragano con tale facilità?
Osservando con attenzione la realtà, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze, appare evidente un fatto fondamentale: le relazioni iniziano non perché vogliamo amare, ma perché cerchiamo amore. Una storia inizia non perché siamo spinti dall’amore, ma dalla ricerca di attenzioni, interesse nei nostri confronti, serenità, piacere, importanza, comprensione, ascolto. Tutte queste cose le cerchiamo in una persona ideale, quella che definiamo “la persona giusta” e che ha il grande onore, ma soprattutto onere, di renderci felici.
Se vogliamo conquistare o sedurre qualcuno non lo facciamo per amare, ma per essere amati, perché così chiamiamo tutte quelle cose che desideriamo ricevere. Sarebbe tutto perfetto, se non subentrasse un piccolo difetto, per lo più trascurato: questa persona che deve amarci, in realtà può fare di tutto meno che darci proprio quello che vorremmo, cioè l’amore. Anche lei, infatti, vuole sedurci e attrarci non già per amarci, ma per essere amata da noi. In sostanza le persone si cercano per avere qualcosa le une dalle altre, e non per dare. Si tratta di relazioni d’amore?
C’è di più. Tutte queste relazioni, credo (e temo) la maggior parte, nascono quindi non già in forza dell’amore, ma del bisogno, o meglio dei bisogni, che vogliamo soddisfare. Poiché sono i bisogni il centro dei nostri interessi non siamo capaci di amare, in quanto l’amore presuppone una libertà che lo stato di bisogno ci impedisce di raggiungere. Fino a che abbiamo bisogno di respirare non siamo liberi, siamo dipendenti dall’aria. Fino a che abbiamo bisogno di mangiare non siamo liberi, siamo dipendenti dal cibo. Fino a che abbiamo bisogno di essere amati, apprezzati, rispettati, compresi non siamo liberi, perché dipendiamo dagli altri. E non possiamo amare qualcuno da cui dipendiamo. Se mangiare e respirare sono bisogni naturali, essere amati non lo è.
Quelle che chiamiamo relazioni d’amore sono spesso fondate sulle nostre pretese di ottenere dagli altri la soddisfazione di quei bisogni che sentiamo di avere, e che in buonissima parte non sono né naturali né spontanei, ma sostanzialmente creati dalla nostra cultura. Nessuno scrive libri su come si ama, ma su come si seduce, si attrae, come si conquista l’altro. Nessuno vuole imparare ad amare, ma è interessato ai trucchi della comunicazione persuasiva per attrarre la persona giusta. Conquistare qualcuno significa dominarlo, averlo sotto il proprio dominio, pretendere qualcosa da questa persona. Amore? Non interessa molto.
Oggi si scrivono libri, si riempiono siti web, si organizzano seminari che non parlano di amore, ma ne scrivono solo la parola in programmi e titoli ad effetto. L’obiettivo non è imparare ad amare, che richiederebbe un impegno a cambiare noi stessi in maniera totale, ma ad imparare come trattenere e dominare le persone, con lo scopo di trarne soddisfazione. Non costruiremo mai relazioni d’amore in questo modo.
Ogni nostra relazione, di solito, nasce per un interesse personale, per soddisfare un nostro bisogno, non certo per amare. Se così fosse frequenteremmo le persone, gli amici, i parenti e i conoscenti per dare qualcosa, per amare e non per pretendere niente da loro. Se fosse così le relazioni, qualsiasi, non finirebbero così come avviene oggi, e non parleremmo di crisi di coppia, parleremmo di amore, questa volta sul serio e non per vendere l’ennesimo corso senza senso.
Mi rattrista constatare come ancora in molti, forse quasi tutti, siano dell’avviso che piccole bugie dette a “fin di bene” non siano una cosa del tutto sbagliata e che dovrebbero rappresentare invece un utile mezzo per aiutare gli altri. Alla domanda “verità o bugia?” molti sembrano rpeferire una bugia, piccola e a fin di bene…
Si tratta, dicono, di piccole omissioni che spesso aiutano a vivere meglio, evitano situazioni spiacevoli, ci permettono, a noi e agli altri, di superare difficoltà che altrimenti sarebbero insormontabili. A volte, sostengono ancora i tifosi della “bugia a fin di bene”, sono proprio necessarie.
Io, invece, credo che le piccole bugie a “fin di bene” siano solo una rapida e comoda scorciatoia personale, del tutto egoistica, per scappare via da situazioni che iniziano a complicarsi, per ottenere qualcosa che riteniamo importante o, peggio, per spingere gli altri a fare “la cosa giusta”, che ovviamente noi abbiamo compreso.
Dirsi che in fondo è una piccola bugia a “fin di bene” aiuta anche a giustificare un comportamento, quello dell’insincerità e dell’inganno, del “tradimento” della fiducia altrui, che normalmente condanniamo a troviamo sbagliato.
Io non sono affatto convinto che le piccole bugie siano necessarie e dovute in alcune circostanze. Sono una facile scappatoia, è vero, ma spesso procurano molti più danni di quanto non crediamo.
Innanzi tutto minano fortemente la fiducia che altri ripongono in noi. Se siamo pronti a mentire su cose di poco conto figuriamoci quando la posta in palio è maggiore e l’interesse cresce. Perdiamo credibilità mostrando di ingannare le persone che, di conseguenza, cominceranno a dubitare di noi. La coerenza e l’integrità sono difficili da costruire e una semplice e banale bugia può sgretolarle facilmente come l’intonaco secco dal muro.
In secondo luogo non aiutano gli altri a crescere. Spesso ci giustifichiamo dicendo che vogliamo proteggere e difendere le persone da inutili sofferenze e la piccola bugia è il modo in cui ci prendiamo cura di loro. In realtà non solo non li aiutiamo ad affrontare la realtà, che prima o poi incontreranno, ma badiamo solo ad evitare a noi la sofferenza del confronto, dell’incomprensione e della loro reazione.
La bugia a “fin di bene” è puro egoismo e non serve a molto. Inoltre lascia trasparire una difficoltà ad assumerci, o fare assumere, la responsabilità delle scelte e dei comportamenti.
Mentire non è mai la strada giusta. Meglio essere onesti, dire le cose come stanno, affrontarne la responsabilità e aiutare gli altri a crescere facendo altrettanto. Se veramente vogliamo bene a qualcuno non dovremmo dare quel che non vorremmo ricevere, e nessuno vorrebbe che gli venissero dette bugie, anche se a “fin di bene”.
Sebbene alcuni confondano la capacità di improvvisazione con la necessità di chi si trova impreparato e quindi deve far ricorso all’ultimo momento alle risorse disponibili, l’arte di improvvisare è invece frutto di una preparazione attenta e precisa: improvvisare non significa infatti agire in modo casuale, ma semplicemente saper adattare ciò che possediamo alla circostanza imprevista a cui dobbiamo far fronte.
Che si tratti di sostenere un esame, di prendere parte ad un dibattito pubblico, tenere una conferenza, oppure convincere un gruppo di amici a passare una serata come vogliamo noi, saper improvvisare potrà essere un asso nella manica di sicuro successo. Ci capiterà spesso di trovarci in situazioni impreviste o inaspettate, oppure di fronte a risposte o reazioni che non avevamo preventivato: sarà questo il momento in cui mostreremo la nostra capacità di improvvisazione e, quindi, la nostra preparazione. Vediamo qualche consiglio utile.
Per prima cosa dobbiamo essere preparati: questo non vuol dire sapere cosa andremo a fare per filo e per segno, ma conoscere l’ambiente o le tematiche generali. Imparare a improvvisare richiede una preparazione vasta, quindi più conoscenze abbiamo in vari ambiti meglio sapremo improvvisare. Guardare programmi culturali o di intrattenimento, leggere libri o riviste di vario genere, usare internet per fare ricerche, parlare con tante persone. Provate ad esempio a leggere un manuale introduttivo e generico ad un argomento che non conoscete bene, come la medicina, la fisica, l’informatica, la moda, il design, l’arte, la musica, uno sport in particolare, la comunicazione, la meccanica, la politica, l’economia, la finanza, la storia, la sartoria, la cucina etc.
In secondo luogo dobbiamo allenare la nostra elasticità mentale, la capacità di variare argomento facilmente, anche in modo “pindarico”, senza perdere il controllo della situazione oppure il filo del discorso. Per questo potremmo esercitarvi in famiglia o tra amici: informatevi su un paio di argomenti pronti e quando un discorso si presta, tirateli fuori e improvvisate qualcosa. L’esercizio funziona bene soprattutto se gli argomenti sono molto distanti tra loro e vi abituate a saltare dall’uno all’altro senza difficoltà.
Prendete in considerazione di seguire corsi, ve ne sono molti gratuiti o a costi modici, anche online, di formazione su argomenti che vi incuriosiscono ma non conoscete molto.
Sfruttate ogni occasione sociale per allenarvi a improvvisare: quando vi presentano qualcuno, oppure quando partecipate ad una festa, quando andate in palestra piuttosto che a fare shopping, in ogni occasione in cui potreste iniziare conversazioni impreviste o imprevedibili.
Ricapitolando: 1.Preparatevi bene 2.Allenate l’elasticità mentale 3.Trovate il modo di imparare cose sempre nuove 4.Sfruttate ogni occasione per provare 5.Usate giochi creativi per allenarvi in compagnia
Oggi ci si lamenta con molta facilità che la crisi ha ridotto i posti di lavoro, che il governo non è attento a questi problemi e che alla fine noi siamo tutti delle vittime.
A me questo modo di pensare non piace per nulla. Ecco cosa penso:
Innanzi tutto la responsabilità di lavorare o meno è sulle nostre spalle: se oggi non lavori e cerchi un responsabile, guardati allo specchio!
L’errore è aspettare che suonino alla nostra porta (o mandino una e-mail piuttosto che una raccomandata) per darci il lavoro che desideriamo. Se aspettiamo che ci ricontattino per i nostri curriculum, possiamo sperare e basta. Invece dobbiamo agire.
Come? rispettando una semplice regola che comanda il mercato: avrai sempre del lavoro se dai più di quanto chiedi. Semplicissimo.
Se un’azienda deve spendere 20.000 euro ogni anno per pagarti lo stipendio, tu le stai dando più di questa cifra? un passo indietro: sai quanto vale il tuo contributo in termini economici? quanto vali come lavoratore?
Vali più di quanto costi?
Riflettiamo su un punto semplicissimo: se costo 100 e produco 200 quale azienda potrebbe mai licenziarmi? Se tutti sapessero produrre più di quanto costano, tutte le aziende assumerebbero.
Pensa ad una azienda che oggi a 100 dipendenti e non può assumerne di più. Se tu vai a lavorare per loro e gli permetti di guadagnare soldi in più di quelli che costi, non ti assumeranno? Ovvio che si, per il semplice fatto che grazie a te guadagnano più di prima, nonostante ti paghino lo stipendio. E se la stessa cosa la fanno altre decine di persone? Assumeranno anche loro!
Invece succede il contrario: andiamo a chiedere uno stipendio e ci limitiamo a fare il minimo indispensabile, noncuranti se e quanto produciamo per l’impresa, per avere i nostri soldi. Tra l’altro pretendendo di non potere essere mai licenziati, nemmeno se cominciamo a fare meno bene il nostro lavoro.
Se assumi una donna delle pulizie che non lavora bene? Se vedi che la paghi ma lascia parti della casa sporca, la continui a pagare? non credo, eppure ti piace credere che ogni impresa dovrebbe fare proprio questo, non poter mai licenziare chi non ha voglia di lavorare.
La verità è che fino a quando cercheremo uno stipendio, invece che un lavoro, non si supererà mai la crisi del mercato del lavoro. Ma questo dipende da noi, da me e da te. Possiamo cambiare, bisogna solo decidere di farlo.
Esiste un modo giusto e un modo sbagliato di trovare lavoro? Esattamente, ci sono comportamenti che ci aiutano a trovare un lavoro e rendono efficace la nostra ricerca e ce ne sono altri che invece si rivelano meno efficaci, più lasciati al caso che non alla nostra programmazione. In questo articolo vorrei metterti in guardia: trovare lavoro dipende soprattutto da te.
Per prima cosa è sbagliato andare a cercare un lavoro qualunque in un’azienda qualsiasi: non va bene chiedere l’elemosina inviando curriculum e lettere di presentazione, non va bene cercare di sembrare disparati per trovare un lavoro puntando sulla pietà. Ma non va bene nemmeno spedire centinaia di domande tutte uguali sperando che qualcuno ci richiami.
La prima domanda a cui devi rispondere bene se vuoi trovare un lavoro è: che lavoro vuoi fare? Se tu per primo non hai neanche idea di cosa vuoi fare, mi spieghi come fai ad ottenerla? Spesso la gente risponde: “io vorrei solo lavorare e portare a casa uno stipendio”. Benone, penso io, le aziende staranno certamente facendo la fila per assumere una persona che non sa che vuole fare ma gli interessa solo prendersi i loro soldi. Tutte le imprese cercano persone poco interessate al loro settore e desiderose di prendersi lo stipendio invece che pensare a fare successo lavorando. Per cortesia, siamo seri!
La seconda domanda fondamentale è: per quale motivo dovrebbero scegliere te? Anche a questa domanda, sembra assurdo ma è così, in pochi sanno rispondere. Insomma mandiamo curriculum a tutte le aziende che possono riceverne ma non sanno perché mai queste dovrebbero richiamarci. E se tu non sai per quale motivo dovrei scegliere te al posto di altri, mi spieghi come fai a dirmelo? Se non lo sai tu non lo dici a me che ti potrei assumere, e alla fine pensi davvero che ti assuma?
A costo di essere diretto e molto fastidioso ti dico come la penso: non ci sono molti posti di lavoro, ma solo per quelle persone che non sono una risorsa per le aziende, solo per coloro che non fanno guadagnare di più chi li assume. La crisi c’è, la disoccupazione è alta, ma noi che cerchiamo lavoro cosa facciamo di nostro per trovarlo?
L’ida di rispondere ad una proposta di lavoro inviando il solito curriculum e aspettare (e sperare) di venire scelti, non funziona granché: entrambi conosciamo tante persone che cercano, forse da mesi o anni, un lavoro così senza averlo ancora trovato. Hai due possibilità: continui come hai sempre fatto oppure cambi approccio e cominci a proporti come una risorsa per le aziende.
Inizia da qui: stabilisci che lavoro vuoi fare e stabilisci soprattutto che cosa ti differenzia dagli altri, devi dire a chiare lettere perché devono assumere te invece dei centinaia di altri candidati per quel un posto di lavoro. O parti da qui, oppure continui a “sperare” che un giorno, finalmente, qualcuno ti contatti.
La parola motivazione è stata oggetto di un uso sempre più diffuso tanto nella nostra vita lavorativa, quanto in quella privata. L’economia ha senza dubbio pigiato l’acceleratore sulla diffusione di questo concetto, tanto che oggi esistono corsi per imparare a motivare i propri collaboratori, seminari di comunicazione efficace per riuscire a motivare chiunque, dalla moglie, ai figli fino agli amici e i conoscenti. Tanti, poi, sono i libri che ne parlano, decisamente numerosi i siti e le risorse, più o meno gratuite, che troviamo in rete. Ma la motivazione, quindi, è qualcosa di molto complicato, comprensibile solo agli esperti, agli psicologi e a chi partecipa ad un seminario a pagamento? NO!
Oggi va di moda, più che in passato, mettersi passivamente nelle mani di esperti e professionisti che ne sanno più di noi e possono aiutarci a sviluppare le nostre capacità, cosa che da soli, crediamo, non riusciremmo a fare. Io sono contrario a questo approccio perché i professionisti e gli esperti, rispetto a noi, hanno solo dedicato più tempo a studiare un certo aspetto. Questo vuol dire che tutti possiamo diventare esperti in un certo campo, che la creatività e la sensibilità per riuscire bene in qualcosa non sono per niente esclusive di pochi eletti.
Parlavamo di motivazione, bene, ecco cosa devi sapere per poter sfruttare un elemento importante della nostra vita: per prima cosa devi renderti conto che tu stesso sei sempre motivato e spessissimo hai motivato altre persone. Forse non hai usato questa parola, ma il concetto, la sostanza, sono state senza dubbio le stesse. Quindi, cosa devi sapere?
La motivazione è semplicemente ciò che spinge ognuno di noi ad agire o comportarsi, o parlare in un certo modo. Se faccio qualcosa ho un motivo per farla, se dico alcune parole o mi comporto ad un certo modo, avrò senza dubbio dei motivi. La motivazione è qualcosa di semplice, gli esperti, di solito, la complicano.
La motivazione si basa, sostanzialmente, su due elementi chiave: il piacere, che tutti cerchiamo e che va inteso in senso lato come ogni sorta di gratificazione (emozioni positive) e il dolore, che tutti invece cerchiamo di evitare. Per quanto siano complesse le scelte umane ricorda che alla base c’è sempre il tentativo di fuggire dal dolore e di raggiungere un piacere.
Altra cosa che devi ricordare è che piacere e dolore sono sempre soggettivi e sono legati alle nostre esperienza, alle nostre associazioni agli oggetti, alle persone, alle situazioni. Ciò che è complesso, nella motivazione, è comprendere come ognuno di noi valuti piacevoli o dolorose le stesse situazioni. Ognuno le vedrà in modo differente. Ricordalo.
Inoltre il tempo gioca un ruolo determinante: alcuni tendono a non saper aspettare. Qualcosa di piacevole oggi è meglio che domani, così come un dolore oggi è più minaccioso di uno, anche maggiore, domani. Tieni sempre a mente che il presente ha una forza emotiva superiore al futuro.
Altro aspetto cruciale è considerare che società ed educazione culturale ci portano a preferire una fuga dal dolore, sempre insopportabile, piuttosto che una ricerca del piacere, a volte complessa o lunga nel tempo.
Quindi, la motivazione dipende dalla nostra valutazione di ciò che è piacevole e di ciò che è doloroso (la felicità è quello che cerchiamo di ottenere tutti quanti); preferiamo ragionare in termini di oggi e non di domani (specie con i piaceri); il dolore rappresenta una spinta (culturalmente) più forte del piacere. Tutto qui? Questi sono alcuni concetti fondamentali. Sapere è un conto, comprendere gli altri e noi stessi e mettere in pratica questa comprensione per motivarci e motivare è la vera sfida che ti attende!
Spesso i genitori si ritrovano a vivere (parlo in terza solo perché non sono ancora genitore…) la loro relazione con i figli come se fosse a senso unico per quel che concerne l’insegnamento e la crescita personale. Se è ovvio che sia il genitore, più grande e (si presume) maturo a dover insegnare molto al figlio, si da molto per scontato (sbagliando) che questi non possa insegnare nulla al padre o alla madre. Oggi vorrei parlare di uno dei più grandi doni che un figlio, quando è piccolo, può fare ai propri genitore: la libertà.
I bambini sono un esempio importante per ricordarci il valore dell’indipendenza dal mondo esterno: sebbene siano bisognosi di cure e abbiano un forte attaccamento agli adulti, tutti i bambini, di solito, sono estremamente liberi. Non sono condizionati, ad esempio, dal giudizio dagli altri, dall’idea che quello che stanno facendo possa essere ridicolo agli occhi di altre persone, non immaginano neanche che si possa scegliere di soffrire per via di comportamenti autolesionisti come la vendetta o l’orgoglio. Tanto più nostro figlio è piccolo, tanto meglio riesce ad essere per noi un esempio di questa libertà dagli altri.
I bambini sono anche una fonte inesauribile di vitalità e allegria, sono naturalmente desiderosi di giocare, correre, ridere, scherzare e stare allegri. Possono diventare un modello di ottimismo e serenità che noi adulti, spesso, finiamo lentamente con il perdere per strada. I nostri figli, invece, sanno essere più consapevoli del loro presente: vivono il momento attuale a pieno, riuscendo come a noi spesso è impossibile ad immergersi e perdersi nella attività che li appassionano. Proprio in questo possono insegnarci molto, perché ci ricordano che possiamo vivere seguendo le nostre passioni e i nostri interessi senza mai smettere di sognare.
I bambini sono anche portatori sani di sincerità e onestà. Se non sono “educati” a mentire per evitare punizioni e aggressioni verbali (spesso anche fisiche) da parte degli adulti, hanno la spontanea tendenza a vedere le cose meglio degli adulti, ad osservare la realtà e a non fingere. Dato il livello altissimo di ipocrisia che contraddistingue la nostra società, loro dovrebbero essere il modello da seguire e non venire invece portati verso il modello degli adulti.
Dai nostri figli, inoltre, possiamo prendere da esempio la capacità di mettere da parte le difficoltà passate o future e vivere in modo sereno. I bambini non sono preoccupati, se non per via dell’”educazione” che lentamente ne spegne l’entusiasmo e la curiosità. Loro sarebbero la fonte perfetta per ispirare la nostra fiducia e la nostra tranquillità. Inoltre possono essere un ottimo allenamento per sviluppare la nostra pazienza!
Una cosa è certa: noi abbiamo il compito di aiutarli a crescere e sviluppare il loro potenziale per vivere liberi e felici, ma dobbiamo farlo senza mai dimenticarci che, mentre noi aiutiamo loro, possiamo imparare davvero molto su come vivere meglio la nostra vita. Anche per questo, appena li vediamo, dovremmo dire GRAZIE!
Si dice che non possiamo amare veramente gli altri se, prima, non abbiamo imparato ad amare noi stessi. Imparare ad amarsi, specie per coloro che hanno subito delusioni, che hanno vissuto nella convinzione che fosse meglio privarsi di piaceri e soddisfazioni per non sembrare egoisti o “cattive persone”, non è facile. Se cresciamo con una visione distorta dell’egoismo, confondendolo con la naturale e sana cura di sé, diventa poi necessario cambiare il nostro modo di vivere.
Sono personalmente convinto che una delle maggiori difficoltà dei nostri tempi sia costituita dalla mancanza di amore, dall’incapacità di amare in modo autentico e profondo. Sebbene ci sia un evidente bisogno di amore, sono pochi coloro che sanno amarsi e, quindi, sanno anche amare gli altri.
Imparare ad amarsi presuppone, prima di tutto, la comprensione di cosa voglia dire amare: comprensione, rispetto, pazienza, perdono, generosità verità. Questi sono solo alcuni “passi” che l’amore può compiere nella nostra vita; vediamo come possiamo compierli nei confronti di noi stessi.
Siamo capaci di essere sinceri e veritieri con noi stessi? Abbiamo il coraggio di dirci la verità, senza nascondere la testa sotto la sabbia? Spesso siamo tentati in piccole bugie , modi con i quali ci inganniamo per non soffrire. Il primo atto di amore verso noi stessi potrebbe essere quello di affrontare la realtà senza nasconderci o far finta di nulla, cominciando ad ammettere le cose che conosciamo bene ma continuiamo ad ignorare.
Siamo in grado di perdonarci? Tutti commettono errori, noi non facciamo eccezione, ma non possiamo perdonare gli altri se non siamo capaci di farlo con noi stessi. Possiamo iniziare da un errore commesso che continuiamo a trascinarci dietro, scegliendo di lasciare andare. La giusta soluzione non è tormentarci per lo sbaglio, ma impegnarci ogni giorno a non ricadervi e a diventare persone sempre migliori.
Abbiamo pazienza verso noi stessi? È più facile renderci conto di come spesso mettiamo pressione agli altri o non sappiamo adeguarci ai loro tempi, ma siamo capaci di rispettare i nostri? O tendiamo a imporci marce forzate e a giudicare negativamente ogni battuta d’arresto? Sappiamo attendere la nostra crescita? Abbiamo la pazienza per comprendere che alcune cose richiedono un tempo e che amarci comincia anche accettando i nostri, di tempi?
Imparare ad amarsi non differisce dalla nostra capacità di amare gli altri: cambia solo il soggetto a cui diamo il nostro amore. Se vuoi imparare ad amarti comincia a darti tutte quelle attenzioni, qui gesti, quel rispetto che cerchi di concedere alle persone che dici di amare. Solo imparando ad amarsi impareremo ad amare gli altri in un modo nuovo e più autentico.
Amarsi è come versare all’interno di un’anfora dell’acqua fresca, consapevoli che molti potranno berne: se lasciamo che l’anfora si svuoti, presto, di acqua non ce ne sarà per nessuno.
“…mentre il respiro tornava lentamente al suo ritmo naturale, mentre le mani smettevano di essere chiuse e in tensione e lo stomaco sembrava tornare rilassato e calmo, Matteo non poteva fare a meno di osservare la scia lasciata dalla sua ennesima scenata: il figlio chiuso in camera che non gli voleva più parlare, Marta che piangeva seduta al tavolo, convinta ormai che lui non potesse più cambiare. Cosa gli succedeva? Possibile che non fosse forte abbastanza da dominare i suoi scatti di impulsività, che non sapesse tenere la lingua a freno? Quante volte, si domandava, avrebbe dovuto chiedere scusa per quelle frasi dette senza pensare, e quante volte ancora suo figlio e sua moglie l’avrebbero ancora perdonato? Mentre lo sguardo cominciava ad offuscarsi, segno della presa di coscienza dell’ennesimo sbaglio, Luigi continuava a mettere in dubbio che fosse una persona buona e che fosse degno della sua famiglia…”
Essere impulsivi, in poche parole, significa lasciarsi guidare dell’impulso del momento, dando libero sfogo alle reazioni incontrollate che gli eventi, i comportamenti altrui, le parole suscitano in noi. Invece di riflettere agiamo senza pensare, diciamo o facciamo cosa di cui poi, quasi sempre, ci pentiamo e che cerchiamo di correggere con le nostre pronte scuse (non tutti) o con qualche gesto dal sapore riparatore.
Possiamo controllare questa cattiva abitudine? La risposta, ovviamente, è si. Essere impulsivi non è una dote innata, magari una tendenza individuale, ma comunque è il risultato dell’abitudine. Se siamo impulsivi oggi è perché ieri e il giorno prima ancora lo siamo stati. Ogni volta che ripetiamo un certo comportamento lo rafforziamo e lo rendiamo talmente automatico da non controllarlo praticamente più. In questo modo si rafforza ulteriormente in un circolo vizioso senza fine. Più scendiamo e meno siamo in grado di riprendere il controllo. Come fare?
La consapevolezza è il primo passo. È importante anche capire in quali situazioni, soprattutto, siamo soggetti a reazioni impulsive in modo da essere più preparati quando si presentano. Se reagiamo con maggiore impulsività in casa, sarà tra le mura domestiche che dovremmo stare più in guardia.
Dobbiamo poi impedire all’impulsività di ripetersi ancora. Non deve continuare a rafforzarsi. Qualsiasi sistema è utile purché ci consenta di ottenere, in modo etico e rispettoso, di frenarci: penso al segnale di qualcuno che ci indica che stiamo cadendo nel solito comportamento, oppure il tenere una mano davanti alla bocca per ricordarci di pensare prima di parlare, usare un foglio di carta messo sul tavolo o in un luogo visibile per ricordarci la nostra sfida. L’importante è impedirci di ricadere ancora nella vecchia abitudine. E poi?
Imparane una nuova. Desiderare, ad esempio, di riflettere prima di parlare o agire. Potremmo avvalerci di una lavagnetta sulla quale scriviamo tutto quello che ci passa in testa e su cui poi riflettiamo, oppure potremmo scrivere su un foglio pro e contro di un’idea e poi parlare, o ancora potremmo decidere di non esprimerci se non dopo una passeggiata rilassante o dopo aver ascoltato una delle nostre canzoni preferite. Ogni azione è buona purché ci induca a prendere tempo (contrario dell’impulsività) e riflettere con calma.
Quando questi cambiamenti saranno abbastanza forti, ci renderemo conto che spontaneamente cominceremo a reagire con meno fretta e con più calma, eliminando, giorno dopo giorno, il vecchio limite dell’ essere impulsivi.
Oggi più che mai sembra che etica e denaro siano parole in contraddizione o comunque abbastanza lontane tra loro, per lo meno nella pratica quotidianità. Non voglio parlare male di chi ha fatto del denaro il centro della sua vita, ma piuttosto affrontare un delicato tema di etica professionale: lo stipendio e l’onorario.
Cominciamo dal discorso degli stipendi: viviamo in un periodo storico denso di difficoltà economiche: la crisi ha eroso molti posti di lavoro, molti aumenti di stipendio sono improponibili, spesso anche nuove assunzioni e investimenti rappresentano un ideale e non una via praticabile. Siamo sicuri? Vediamo meglio come stanno le cose. Nelle aziende più importanti a livello nazionale e mondiale, accanto alle poche assunzioni o ai licenziamenti, fiancheggiano stipendi a sei zeri per i top manager.
Certo, loro svolgono un ruolo fondamentale, ma non è troppo essere retribuiti nell’ordine dei milioni di euro quando i dipendenti ne prendono qualche migliaio o vengono mandati a casa per la crisi? Alcuni manager arrivano a guadagnare un milione l’anno, molti dipendenti non superano i ventimila euro. Se uno di questi manager si “accontentasse” di guadagnarne centomila euro ogni anno, con il resto del denaro si potrebbero retribuire circa 45 altre persone, o almeno non licenziarne lo stesso numero. Non credo che centomila euro annui siano un reddito con il quale non si possa vivere… nonostante ciò sembra che questa idea non sia venuta in mente a nessuno. Etica professionale è quello di cui avremmo realmente bisogno oggi.
Pensiamo anche ad alcune categorie di liberi professionisti: ci sono settori dove l’ordine professionale suggerisce un tariffari minimo o dove gli onorari non seguono la legge della concorrenza rimanendo, sostanzialmente, omogenei come in un enorme cartello . Una sorta di grande monopolio a danno, ovviamente, dei clienti. Prendo ad esempio il mondo del coaching, essendo un settore che conosco direttamente. Le tariffe non sono imposte, non ci sono albi ne registri ufficiali: chiunque può aprirsi uno studio e fare il coach, con o senza attestati di alcun genere. Nonostante questo le tariffe sono abbastanza omogenee: si va da un minimo di 50 euro per coach poco esperti o alle prime armi, fino a centinaia o migliaia di euro per coloro che invece hanno esperienza e blasone. Tutto, intendiamoci, per ogni ora di lavoro.
Da alcuni ho sentito dire che una tariffa minore sarebbe volontariato, o renderebbe impossibile vivere. Come direttore di negozio prendevo circa 10 euro l’ora per un lavoro molto impegnativo, di notevole responsabilità finanziarie e legale. Anche in altri casi, prendiamo ad esempio medici o avvocati, commercialisti o notai, le tariffe sono elevate e spesso molti clienti non sono in grado di permettersi determinati servizi o lo fanno con grandi sacrifici.
Lavorare in modo etico significa anche, e soprattutto, rispettare il lavoro, la fatica e la dignità dei propri clienti, ricordandoci che per quanto possa essere di valore il nostro servizio, non è necessario proporlo ad un prezzo elevato. A mio avviso ognuno potrebbe guadagnare abbastanza per vivere serenamente, se nessuno volesse guadagnare abbastanza per vivere come un re. Vi sembra credibile che si dichiari equo e legittimo il proprio stipendio mentre si compra una villa o una vacanza esotica, sostenendo che non si potrebbe vivere con tariffe minori?
Non dobbiamo dimenticarci che il mercato non ha a cuore l’interesse delle persone e non è affatto etico se non lo sono le persone che ci lavorano dentro. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma fuori dal coro le voci si contano facilmente.
Avere successo è forse una delle maggiori ambizioni umane: specialmente oggi siamo caricati dalle aspettative di tutti riguardo ai traguardi che sapremo raggiungere e avere successo significa, in termini molto semplici, saper adeguarci allo standard che la nostra cultura ci impone.
Possiamo dire di avere successo quando raggiungiamo i risultati che tutti, compresi noi, si aspettano: che sia il titolo di studio migliore, il lavoro prestigioso, lo stipendio a cinque zeri, la famiglia felice, il partner attraente, i figli che ci obbediscono e raggiungono, a loro volta, il successo, il prestigio sociale.
Qualunque siano le mete che stimano lottando per raggiungere, avere successo significherà quasi sicuramente raggiungere quello che gli altri, tutti magari, hanno decretato valevole, importante, degno di fatica e lavoro. Alla fine avremo vissuto un’intera vita a fare quello che gli altri ritengono lodevole. E noi?
Cosa pensiamo non solo è spesso poco importante rispetto a quello che gli altri pensano (essendo più numerosi e informati di noi) ma spesso è anche tutto fuorché il nostro reale desiderio. Noi stessi perdiamo, spessissimo, la capacità di scegliere qualcosa che non sia secondo i canoni accettati da tutti.
Il solo modo per avere successo nella vita è quello di ottenere il massimo che essa può darci. Questo è avere successo, questo significa aver vissuto una vita che valesse la pena di essere vissuta.
Denaro, potere, prestigio, bellezza, fama o gloria sono tutte cose che, immancabilmente, non saranno mai il massimo che potremo ottenere. Potremo sempre avere di più: più soldi, una compagna più bella o sexy, un lavoro più prestigioso o piacevole, una casa più grande, più potere sociale o prestigio. Non possiamo dire che avremo ottenuto il massimo, perché potremo sempre avere di più.
Se questo è il tipo di successo che cerchi, non lo avrai mai: potrai soddisfare un obiettivo e gioirne. Poi dovrai fare i conti con l’insoddisfazione di poter avere di più e dover continuamente lottare per ottenerlo o per non perdere quanto ora possiedi. Il ciclo ricomincia ogni volta che hai ottenuto quello che volevi, senza scampo. Anche se vinci una corsa dei topi, resti sempre un topo, sebbene il più furbo o veloce.
Ottenere il massimo dalla vita, avere successo veramente, significa comprendere che non siamo nati per avere ma per essere: per amare, essere liberi, vivere consapevoli, responsabilmente. Se ti stai chiedendo “Come si fa ad avere successo?”, ecco la risposta:
Imparando a vivere in modo consapevole, come persone realmente libere, imparando ad amare ogni giorno, tutti, imparando che la felicità non dipende da nulla e da nessuno, ma che è una nostra scelta, imparando che solo ciò che siamo fa la differenza, non i nostri titoli, il nostro prestigio o il nostro blasone. Poiché il vero successo non si può comprare, non è così facile vederne in giro.
In molti pesano, alla fine di una relazione o dopo tanto tempo che non ne hanno una, di non riuscire più ad amare, di non saper provare quelle emozioni che avevano reso felice la loro vita. “Non riesco ad amare” è la frase tipica di chi non conta di trovare la persona giusta, o magari ha subito l’ennesima delusione e teme di dover soffrire ancora in futuro. Convincersi di non riuscire più ad amare è spesso un sintomo della nostra paura.
Se vogliamo ritornare ad amare, qualunque siano le esperienze passate, dobbiamo renderci conto che amare non è qualcosa che capiti o succeda casualmente, che amare è una capacità che tutti possiamo sviluppare e se anche oggi abbiamo effettivamente perso questa capacità, possiamo recuperarla.
Amare viene spesso confuso con il trasporto del primo incontro, con l’attrazione fisica, la sensualità degli altri. Amare è qualcosa di attivo, un insieme di scelte che possiamo ricominciare a fare protagoniste della nostra vita. Amare significa comprendere l’altro, rispettarlo e ascoltarlo, significa accettare le sue idee e le sue caratteristiche. Se pensi di aver perso la capacità di amare devi ricominciare dai primi passi.
Un insegnamento sempre vero, valido in ogni campo, è che dobbiamo ripartire dalle cose più semplici quando crediamo di non riuscire a fare quelle complesse. Elimina la convinzione “Non risesco ad amare!”.
Ricomincia ad ascoltare con interesse sincero gli altri, ricomincia a dedicare i tuoi pensieri alle persone che contano nella tua vita, riprendi l’abitudine di rispettare idee e opinioni anche molto differenti dalle tue. Ricomincia a perdonare che si comporta male, chi ti ferisce o si dimentica di te, riprendi a incoraggiare le persone, ad aiutarle anche quando non sanno del tuo sostegno. Ricomincia a compiere piccoli passi, senza fretta, ma tutti i giorni.
Se oggi pensi: “non riesco ad amare”, allora devi fare una sola cosa: ricominciare ad amare. Ascolta, comprendi, incoraggia, pazienta, dona il tuo tempo e la tua energia, dedica la tua attenzione, usa la sincerità e l’onestà.
Bastano pochi, piccoli passi, fatti ogni giorno, per cancellare il dubbio di non sapere più amare, per accorgersi che amare è la nostra natura e viene molto più semplice di quanto pensiamo. Se ricomincerai ad amare partendo dalle piccole cose, presto ti ritroverai ad amare molto più e molto meglio di quanto non avessi mai fatto e il “non riesco ad amare” svanirà per sempre.
L’identità è un concetto abbastanza complesso e difficile da definire. Chi siamo è un insieme di molti fattori, comprendono il carattere, la personalità, il comportamento, le abitudini, i pensieri, le emozioni, il nostro aspetto, il nostro corpo, la nostra immagine di noi stessi. Tantissimi elementi difficilmente sintetizzabili in un concetto.
Durante i seminari sull’autostima o nei percorsi di crescita personale, il tema della propria identità, il “chi sono” esistenziale, emerge spesso come uno dei primissimi punti da capire e su cui lavorare.
Chi sei realmente? Ciò che conosci come te stesso, sei tu? Oppure sei ciò che è riuscito ad emergere da tutti i limiti che il tuo passato ti ha imposto? Sei tu o sei il riflesso delle persone che ti hanno influenzato? Sei tu o sei la conseguenza della tua educazione e delle tue esperienze? Chi sei veramente?
Voglio essere molto preciso, per cui ho scelto una metafora in grado di farti capire chi sei veramente. La tua identità è come un fiume: scorre continuamente senza mai fermarsi. Sebbene il fiume abbia un nome, come te, non puoi pensare di chiudere il fiume nel suo nome, né credere di poterlo catturare o comprendere se raccogli e bevi un secchio della sua acqua.
Ciò che sei è molto di più dei tuoi comportamenti o del tuo carattere, pure dei tuoi pensieri, delle tue emozioni o delle tue scelte. Tutte queste cose passano, cambiano: oggi pensi cose che dieci anni fa non avresti pensato, o ti comporti come non ti saresti comportato anche solo pochi mesi fa.
I comportamenti che hai sono tuoi, ma non sei tu; i pensieri che hai ti appartengono, ma non sei tu; le emozioni che provi sono tue, ma non sei tu; le tue esperienze, il tuo passato sono un bagaglio che tieni con te, ma non sei tu; qualsiasi cosa gli altri possano vedere di te ti appartiene, ma non sei tu: Tu sei colui che sceglie tutte queste cose.
Tu sei il fiume, che muta, cambia acqua o corso, ora è caldo adesso è freddo, ma sei sempre tu: ciò che si vede ti te è un’apparenza esterna, ti appartiene ma non può definire chi sei. Qualunque etichetta o nome non potrà mai racchiudere chi sei veramente.
Ciò che tu pensi di essere, con tutta probabilità, non è altro che ciò che hai mostrato finora: la tue scelte passate, i tuoi comportamenti le tue emozioni dicono di te solo cosa sei stato, fino ad adesso. Non sei ciò che sei stato, ma sei ciò che scegli di essere.
Non dimenticare mai che sei colui che sceglie e non le sue scelte. Non dimenticare mai che la prima scelta, quella che ti mostrerà chi sei veramente, è decidere di scegliere. Se vivi senza consapevolezza decidi di rinunciare a te stesso, e chi sei rimarrà per sempre sepolto sotto ciò che gli altri credono, o vogliono, che tu sia.
Molte persone che mi scrivono per aiutarle a migliorare la propria autostima, molte di quelle che partecipano ai seminari che organizzo, molte di quelle con cui, semplicemente, parlo e mi confronto, mi spiegano che il principale problema per loro è migliorare alcuni aspetti, a volte uno solo, per potersi finalmente stimare di più, per sentirsi sicure e fiduciose.
Spesso il problema è l’aspetto fisico. Quando non ci piace il nostro corpo, quando troviamo sgradevole il nostro aspetto, spesso svalutiamo noi stessi e abbiamo una scarsa autostima. Altre volte il problema è rappresentato dal lavoro: non averne uno ad una certa età, oppure non riuscire a cambiare quello attuale, magari considerato sgradevole e umiliante, sono spesso causa di una scarsa valutazione di sé. Molte altre volte è il successo in senso lato: l’autostima è negativamente condizionata dal fatto di aver raggiunto un certo risultato, dall’incapacità di aver stabilito standard di un certo livello. In ambito sportivo, professionale o anche personale, la nostra autostima risente spesso della nostra capacità di ottenere quello che dovremmo.
In realtà il punto su cui ci si sofferma, ossia tutte queste condizioni che ci negano la possibilità di stimarci maggiormente, è del tutto fuorviante e inutile. Se per stimarmi devo essere attraente, se devo aver trovato un certo lavoro o possedere una casa di un certo valore, se devo aver raggiunto risultati e successi ben precisi, il problema non è mai una bassa autostima, ma l’incapacità di renderci conto di cosa conti davvero ai nostri occhi: essere accettati e approvati dagli altri.
Se sono brutto questo è un problema nel momento in cui qualcuno potrebbe trattarmi male per il mio aspetto (mi respingono le persone che corteggio, ad esempio); Se non lavoro il problema di autostima è solo perché gli altri potrebbero vedere questa situazione come un segnale della mia incapacità e del mio fallimento; se non vinco una gara, se non ottengo una promozione, il problema nasce solo in funzione di aspettative sociali precisi e imposte.
Le persone confondono l’autostima con l’approvazione. La regola dell’autostima, quella principale, dice che dobbiamo, per prima cosa, liberarci di ogni dipendenza dal parere degli altri. I canoni estetici, il successo, il prestigio, il potere sono tutti parametri che altri hanno stabilito, che noi abbiamo accolto e che ora decidono se noi valiamo o meno. Fortunatamente, in realtà, il nostro valore è immutato, per quanto possiamo non stimarci positivamente.
A tutti coloro che vogliono migliorare la propria autostima e mi chiedono come fare, rispondo così: c’è un solo modo per rafforzare l’autostima ed è rendersi conto che il nostro valore lo associamo sempre al giudizio degli altri e che solo smettendo di guardare a loro per capire quanto valiamo che possiamo cominciare a vivere la nostra vita stimandoci positivamente.
Non ci sono né altre vie né scorciatoie di alcun tipo: se continuiamo a dare importanza al parere delle persone, chiunque esse siano, non saremo mai capaci di avere una sana autostima. Potremo anche incontrare il loro favore e venire apprezzati per il nostro valore, ma non sarà una vera autostima, non sarà una sicurezza solida, ma semplicemente il nostro adeguamento alle aspettative altrui, aspettative destinate a cambiare e con esse la nostra sicurezza. L’autostima o è nostra (indipendente da qualsiasi opinione e parere) oppure , semplicemente, non è, e fortunatamente risiede completamente nelle nostre mani.
Siamo di fronte alla classica commedia d’amore americana? A mio parere no, altrimenti non l’avrei inserita tra i film consigliati! Ho visto questo film per caso, scoprendolo interessante e originale. Non perché si parli dell’amore, ovviamente, ma perché lo si fa in un modo nuovo. Detto che ognuno legge un filma, come un libro, anche a modo suo, io ho visto qualcosa di particolare.
Non la solita storia d’amore fatta di attaccamento e dipendenza reciproci, condita da qualche dissenso e che si conclude con un classico “e vissero felici e contenti”, ma una relazione che nasce per passione e attrazione, si sviluppa sino al classico momento di crisi delle commedie moderne, e termina… non voglio rovinarti il finale, ma la cosa che conta è che trasmette un messaggio, nella sua conclusione, che parla di amore, ma in maniera differente, meno “romantica” e più vera.
Uno degli strumenti più preziosi a nostra disposizione, per comunicare efficacemente con chiunque, è sicuramente il silenzio. Non esiste un altro sistema per poter comprendere veramente quello che gli altri vogliono dirci, le loro opinioni, le loro paure ed i loro interessi. Quando comunichiamo cerchiamo di condividere qualcosa con alcune persone, si tratti di uno scambio di idee tra amici o colleghi, di un consiglio dato ad una persona che potrebbe averne bisogno, di una raccomandazione o di una domanda fatta a qualcuno. In ogni caso non siamo mai capaci di comunicare efficacemente se non sappiamo mantenerci in silenzio.
Quando smettiamo parliamo e diamo più spazio all’ascolto, otteniamo una serie di importanti vantaggi: per prima cosa diamo modo alle persone che ci stanno intorno di avere lo spazio che necessitano ed il modo di esprimersi tranquillamente. Sono spesso le nostre repliche affrettate, i contrattacchi alle loro parole, i tentativi di interrompere discorsi che non gradiamo a rendere più complicate la nostre comunicazioni. Se restiamo in silenzio diamo la possibilità a tutti di parlare apertamente. In secondo luogo questo ci permette di ascoltare le emozioni altrui, di comprendere i reali interessi delle persone con cui vogliamo comunicare. Quando invece interrompiamo o ribattiamo su ogni parola, non concediamo né lo spazio né la serenità per un’apertura autentica: nessuno ci rivelerà i propri reali interessi o le proprie paure se non trova apertura e comprensione dalla parte opposta. A volte non ci rendiamo conto di quante informazioni ci neghiamo per non saper tenere la bocca chiusa!
Ascoltare in silenzio ci concede il modo di imparare: ogni persona porta con se idee ed esperienze che possono arricchirci, anche quando apparentemente le consideriamo scontate o di poco conto, esse potrebbero rappresentare uno spunto di riflessione personale, oppure indurci ad osservare la realtà da un angolo differente di visuale. Inoltre è indubbio che solo facendo silenzio e ascoltando possiamo imparare qualcosa di nuovo. Spesso questa capacità di ascoltare senza replicare ci da modo di soppesare le nostre risposte, evitando di reagire con veemenza eccessiva o di aggredire verbalmente chi ci sta di fronte (quanto spesso capita…) oppure ci concede la possibilità di riflettere su idee che a caldo scarteremmo, ma che se soppesiamo senza fretta si riveleranno utili molto più di quanto non pensassimo sulle prime. Molti consigli vengono rifiutati non per la loro inadeguatezza, ma per come vengono posti e per come noi li accogliamo (spesso frettolosamente) appena sentiti. Un buon silenzio ci darà modo di comprenderli meglio.
Il silenzio, inoltre, sarà una delle più utili abitudini per imparare a prendere il controllo su noi stessi, per evitare reazioni incontrollate, fisiche o verbali, di cui spesso ci pentiamo, per costruire relazioni migliori e per creare una comunicazione più profonda e autentica. Solo nel silenzio, inoltre, troviamo lo spazio per l’autoanalisi, per la riflessione e per la nostra crescita personale. Dal caos quotidiano possiamo uscire solo se sappiamo ritagliarci dei momenti di sereno e tranquillo silenzio. Ti invito sin da subito a dedicare alcuni spazi della tua giornata a coltivare questo prezioso alleato. Prova a decidere di rimanere zitto per almeno un ora al giorno, oppure scegli una discussione in cui non replicherai prima di aver sentito tutto, o se sei audace, mantieni il silenzio per un giorno intero. Se farai della capacità di rimanere in silenzio, ed ascoltare, una tua abitudine, posso assicurarti che non tarderà il giorno in cui ne trarrai grande vantaggio.
Cosa significa comunicare? Quale compito dovrebbe assolvere questa abilità che tutti possediamo e possiamo sviluppare? Se non ci sono dubbi circa la convinzione comune che saper comunicare sia importante (lo dimostra una crescente domanda di corsi di formazione in comunicazione) molti sono invece i dubbi legati alla reale comprensione da parte nostra di cosa voglia dire comunicare realmente.
La comunicazione efficace è una delle “materie” di studio più gettonate, con corsi e percorsi formativi di ogni genere, spazi universitari e non, libri, materiale video, siti online a programmi televisivi. Ciò che purtroppo caratterizza tutto questo fervente settore, spessissimo, è la totale focalizzazione su tecniche e metodi che hanno lo scopo di far ottenere un certo risultato: quello di convincere gli altri, di manipolarli o di portarli a condividere le nostre idee. La comunicazione ha assunto oggi il ruolo di panacea di ogni problema, quasi che per qualsiasi difficoltà basti imparare a comunicare meglio ed il gioco è fatto.
La sfortuna sta anche nella constatazione che spesso la tecnica diventa più importante del contenuto che dovrebbe veicolare. Cosa vuol dire quindi comunicare veramente, in maniera efficace? Il primo punto da comprendere è che quando comunichiamo noi creiamo delle relazioni personali con gli altri, costruiamodei ponti che ci mettono non solo in comunicazione, ma anche in contatto. Entriamo nella vita altrui e lasciamo che altri facciano altrettanto nella nostra. Le nostre relazioni sono, in sostanza, il risultato dei nostri processi comunicativi, in senso ovviamente lato. Comunicare non è quindi semplicemente convincere qualcuno che abbiamo ragione, ma creare con questa persona una relazione emotiva.
Il segreto della comunicazione efficace è comprendere che essa è, prima di tutto, l’ossatura delle nostre relazioni. L’interesse sincero verso gli altri, la nostra disponibilità a comprendere, la sollecitudine che abbiamo nei confronti delle persone, la voglia di condividere la nostra esperienza con loro, anche solo per poco tempo. Questi sono i fondamenti della comunicazione realmente efficace.
Le tecniche che vengono insegnate possono diventare utilissime se viste come semplici strumenti utili a migliorare le nostre relazioni, e non come i sostituti di una genuinità e sincerità di fondo. Oggi invece si tende a prendere la comunicazione come un mezzo per il proprio interesse, per i propri bisogni, per assecondare il proprio egoismo, ponendo sempre in secondo piano gli altri. È paradossale che in un processo relazionale come questo, la relazione stessa, la persona, venga tenuta in scarsa considerazione. Le tecniche sono spesso usate per manipolare gli altri, per spingerli a fare le scelte che noi riteniamo più corrette, per comportarsi nel modo che noi riteniamo migliore, per avere ciò di cui abbiamo bisogno.
Dare ottimi bisturi ad un avvocato non ne farà un buon chirurgo, tanto quanto insegnare grandi tecniche di comunicazione efficace ad una persona del tutto egoista e disinteressata agli altri non ne farà un buon comunicatore. Se vogliamo comunicare bene, ed in modo realmente efficace, per prima cosa dobbiamo essere realmente interessati agli altri, amarli realmente. La comunicazione è un’espressione di ciò che siamo dentro: possiamo fingere di essere qualcosa che non siamo, ma non possiamo creare legami solidi o vivere felici fingendo.
Diciamolo onestamente: a tutti piace dare consigli, siamo spesso convinti di avere ragione, vogliamo aiutare gli altri e ci sentiamo gratificati quando, seguendo le nostre idee, loro ottengono dei buoni risultati (forse più che per i risultati per il fatto di aver seguito i nostri preziosi consigli!). Fin qui, direi, nulla di male, a patto di avere a cuore l’interesse degli altri.
Quello che voglio fare con questo articolo è darti alcune idee per porre le tue opinioni affinché gli altri le prendano in considerazione (se pretendi che le seguano, non sono più consigli…) e le valutino attentamente.
Per prima cosa devi accertarti di aver compreso cosa vogliano ottenere le persone cui dai suggerimenti. Anche il miglior consiglio, se dato nel momento e contesto sbagliato, potrebbe servire veramente a poco.
In secondo luogo sfrutta le domande e non dare ordini. Questo vuol dire che devi imparare a domandare
Altro elemento importante è non forzare mai l’altra persona con discussioni estenuanti che vogliano convincerla a tutti i costi che tu hai ragione. Se veramente pensi che al tua idea sia valida, allora dovresti limitarti a presentarla, spiegarla bene (come vedremo ora) e incarnarla personalmente.
Evidenzia, da subito, i pro della tua idea, ossia cosa guadagnerebbero le persone a seguirla, ma non tralasciare i contro. Se dici solo le cose positive, tacendo quelle negative, perderai credibilità e gli altri penseranno che vuoi solo aver ragione e non aiutarli sinceramente. Se dici la verità gli altri ti prenderanno in considerazione.
Vivi personalmente i tuoi consigli. Non suggerire comportamenti che tu stesso non tieni, non proporre scelte che tu stesso non faresti. Il miglior modo per dare un consiglio sensato è quello di agire in prima persona a quel modo. Questo dimostra anche che tu credi realmente in quell’idea e sarà la miglior testimonianza dalla sua efficacia.
Se il consiglio che vuoi dare non si ritrova praticamente nella tua esperienza (quindi non puoi metterlo in pratica per primo) riferisciti sempre ai tuoi valori di fondo. Quelli, anche se le situazioni mutano, sono sempre uguali. Suggerisci sempre idee coerenti con la tua visione del mondo, non teorica ma pratica.
Ricapitolando:
1.Accertati di aver compreso l’interesse altrui 2.Usa le domande 3.Non pressare o insistere troppo 4.Sii onesto su meriti e difetti della tua idea 5.Sii coerente e consiglia ciò che vivi in prima persona 6.Riferisciti sempre ai tuoi valori di base
Quando parliamo di comunicazione questa dovrebbe essere la prima domanda da porsi e da porre: cosa ti interessa? Si, perché non possiamo comunicare se non partiamo dalla comprensione dei nostri interessi e di quelli altrui. Questo è un punto estremamente cruciale, che affonda le sue radice nella motivazione personale e tocca tanti temi legati alla comunicazione, come il comportamento, il linguaggio o le nostre regole.
Il punto di partenza, quindi, riguarda le motivazioni personali. Quando comunichiamo dobbiamo partire da un punto molto chiaro: chiunque agisce sempre nella convinzione, sbagliata o giusta che sia, di fare la cosa migliore per se. Nessuno di noi, normalmente, agisce per crearsi un danno, ma solo perché è convinto che la sua scelta sia funzionale. Esatto, funzionale, conveniente, ma a cosa? Semplice, a raggiungere i propri interessi.
In qualsiasi circostanza della nostra vita siamo sempre mossi da un certo interesse (che non è necessariamente economico, ma potrebbe, ed è quasi sempre così, essere di natura psicologica). Facciamo le cose perché vorremmo essere felici (ho già scritto un articolo su cos’è la felicità), perché speriamo e crediamo, di solito in assoluta buona fede, che ci faranno stare bene. Non agiamo mai per farci del male, ma solo per un bene che, anche a prezzo di qualche sofferenza, sarà ampiamente più gratificante.
Cosa c’entra tutto ciò con la comunicazione efficace? Poiché comunicare significa innanzi tutto comprensione, e poiché non possiamo comprendere se non conosciamo le ragioni altrui, ecco che prestare attenzione agli interessi degli altri (e a i propri) diventa fondamentale. Otterrai un livello di comunicazione efficace eccellente se, a dispetto di qualsiasi consiglio o tecnica pratica, saprai comprendere autenticamente quali interessi premono alle persone con cui ti relazioni. Se riesci a capire cosa cercano o cosa li spinge ad agire, imparerai a comprendere le loro scelte e non giudicarle più come sciocche o superficiali, imparando a comunicare in modo migliore.
Anche se ritieni errato un mezzo che gli altri usano, ne capisci i motivi di fondo e questo ti permetti di entrare in sintonia con gli altri, comprenderli e poter condividere le tue idee ed esperienza con loro senza che sentano in te prevaricazione. Ecco la domanda che ritorna: cosa ti interessa veramente? Che gli altri agiscano come dici tu perché hai ragione? o ti interessa comprendere gli altri e aiutarli a realizzarsi pienamente? Ti sta più a cuore la persona che hai di fonte o l’obiettivo che vuoi conseguire? È più importante la vostra relazione o che faccia quello che dici tu?
La differenza, non devo dirlo io, è abissale: da una parte trovi un atteggiamento di chiusura, dove l’interesse altrui è subordinato al proprio, o neanche compreso, mentre dall’altra c’è l’apertura di chi ha a cuore, innanzi tutto, le persone e da quindi valore a ciò che per loro è importante, sapendo così comunicare veramente in modo efficace.
Se vuoi cominciare realmente a creare rapporti basati su una vera e buona comunicazione, inizia a chiederti con onestà cosa ti interessa veramente, e scopri cosa interessa di più agli altri. Da qui potrai tessere, finalmente, relazioni veramente positive. Ti interessa?!
La resilienza è il tema centrale di quest’opera di Trabucchi, resilienza come la capacità di risalire sulla barca che si è rovesciata, scaraventandoci in mare. Sono convinto che resilienza e autostima siano assimilabili e vicine più di quanto non si dica apertamente. In queste pagine si trovano storie e racconti che ispirano l’importanza di non mollare mai.
In particolare è il racconto del Sig. White che ha colpito la mia attenzione, come esempio, scientificamente interessante, di come la nostra mente, la nostra convinzione siano dotate di una forza che può combattere il male, guarire le ferite. Nessuna illusione però, o facile autoinganno: siamo dotati di un grandissimo potenziale che possiamo sfruttare ogni giorno.
Leggere queste pagine offrirà spunti molto interessanti e storie chiare che dicono questo: la sconfitta è una scelta, non una imposizione. A scegliere siamo chiamati noi.
Parlando con una mia amica dei suoi problemi sentimentali, mi sentivo ripetere più volte di come questi fossero in larga parte legati al brutto carattere del suo fidanzato, ai suoi comportamenti per lei intollerabili e decisamente sbagliati.
In un articolo ho accennato a come spesso ci soffermiamo a valutare le persone che ci stanno accanto su parametri superficiali, come l’aspetto o i gusti personali, ma anche il carattere ed il comportamento, e non su quelli che dovrebbero esse le basi di una relazione. Nonostante abbiamo appreso sin da piccoli che il carattere delle persone non cambia facilmente, in realtà non è qualcosa di statico ed il comportamento non è la persona.
Spesso, invece, confondiamo le due cose, tendiamo a definire maleducato un signore che si comporta in modo scortese, oppure stupido un altro che si comporta in modo poco intelligente, o ancora scontrosa una persona che si comporta in modo poco amichevole. Ma sono solo comportamenti.
Il comportamento – è bene capirlo – è solo un modo che usiamo per interagire con gli altri. È una scelta che deve permetterci di interagire col contesto. Se poi ci comportiamo sempre in un certo modo, questo diventerà caratteristico e ci ritroveremo ad avere un’abitudine che poi difficilmente controlleremo consapevolmente.
Se diventiamo insofferenti al comportamento degli altri, in realtà questo dipende solo da noi e dal modo in cui lo valutiamo. Non è ciò che gli altri fanno a darci fastidio, ma la nostra interpretazione, il significato che gli attribuiamo, il pensare che sia “giusto” o “sbagliato”.
Finché siamo pronti a giudicare comportamento e carattere degli altri, usando noi come metro di misura, saremo sempre pronti a criticare negativamente e pretendere che gli altri cambino, perché, anche se non se ne rendono conto, stanno “sbagliando”.
Da qui nasce la pretesa di cambiare le persone che “amiamo”, quelle con le quali – bisogna ammetterlo – siamo sempre meno comprensivi ed indulgenti. Ma se le amiamo, allora non dovremmo pretendere che si comportino come a noi pare meglio. Questo è egoismo.
Avere problemi perché la persona amata ha “un brutto carattere” vuol dire che ci stiamo fermando in superficie, ma vuol dire anche che non stiamo amando veramente. Amare vuol dire “dare incondizionatamente”; voler cambiare il carattere significa invece pretendere, magari perché un comportamento differente è quello di cui noi avremmo bisogno per essere felici. ( così almeno crediamo!)
Dobbiamo smettere di valutare se quel carattere sia “buono o cattivo”, andare oltre e guardare le motivazioni,le cause di un certo comportamento; significa osservare l’altro e non la sua apparenza, e significa accettare, amare, appunto, dare senza pretendere, perché il vero amore non è rivolto al comportamento ma alla persona nella sua più profonda essenza.
A quel punto non si tratterà di chiudere un occhio su qualcosa che non ci piace, semplicemente terremo ben aperti entrambi gli occhi e, invece di vedere un caratteraccio, vedremo la persona che amiamo.
Il primo compito per un leader è quello di dipingere il quadro complessivo in cui il proprio gruppo si muove: definire la vision aziendale o familiare è una prerogativa fondamentale per il successo ed essa è una responsabilità del leader. La vision è lo scenario futuro in cui vorremmo trovarci, il livello di crescita e sviluppo, economico e personale, che aspiriamo a raggiungere in un certo tempo. Essa dovrebbe essere l’immagine dello scopo, ossia il traguardo a cui vogliamo arrivare svolgendo la nostra attività.
Compito del leader è definire in modo molto preciso sia lo scopo che la vision. Per quanto concerne il primo esso dovrebbe essere il motivo per cui facciamo quel che abbiamo scelto di fare: se produciamo copertoni lo facciamo, ad esempio, per garantire la sicurezza degli automobilisti, se educhiamo i nostri figli lo facciamo per garantirgli un futuro di libertà. Definiamo la nostra missione, ossia quello che facciamo, in funzione dello scopo che vogliamo raggiungere, la sicurezza nel primo esempio, la felicità nel secondo.
Al leader, che è guida del suo gruppo, sia esso un’impresa o una famiglia, spetta il compito di definire in modo preciso lo scopo da perseguire. Ad ogni leader compete questa decisione ed è suo dovere trovare uno scopo che sia motivante e importante, qualcosa che trascenda la realtà contingente e sia fonte diispirazione, una causa che sia da sprone per tutti e nel quale tutti possano ritrovarsi e sentirsi partecipi.
Se il leader fonda il suo gruppo allora questa fondazione deve ruotare attorno allo scopo stabilito: è per quello che si sta creando un nuovo gruppo. Se il leader si ritrova a guidare un gruppo già formato, o capisce che è il momento di definire un nuovo scopo o di crearne uno laddove non ve ne sia alcuno, ecco che deve innanzi tutto comprendere cosa vogliono le persone che deve guidare. Non possiamo imporre la direzione, sebbene possiamo invitare coloro che non sono d’accordo a scendere prima di trovarsi in un viaggio che non intendono compiere.
Per il leader che dirige un’impresa e intende stabilire un nuovo scopo è importante prima di tutto comprendere le aspettative delle persone, i loro desideri, ciò che per loro è importante e far si che lo scopo che lui sente sia in linea con quello che tutti gli altri vogliono. Non conta cosa produciamo, conta il motivo per il quale lo facciamo. Possiamo produrre copertoni per fare profitti in azienda, oppure per garantire una maggiore sicurezza e salvare la vita di persone, alcune delle quali le conosciamo personalmente. Il leader non deve per forza cambiare la missione aziendale (produrre copertoni), ma deve dare uno scopo chiaro e forte per il quale tutti lavorino con passione e impegno. Non smettiamo di educare i nostri figli, ma farlo per renderli liberi e non per dovere sociale è qualcosa di assolutamente diverso, per noi e per loro.
La vision diviene così il dove vogliamo essere in futuro, tra cinque o dieci anni e ancora più in la: significa che il leader chiarisce a tutti che tra dieci anni i nostri pneumatici ridurranno di un terzo i morti in incidenti stradali, o che i nostri figli saranno capaci di scegliere autonomamente senza venire condizionati dagli altri. Vision e scopo sono il punto di partenza di ogni grande progetto, di ogni grande successo, e spetta al leader occuparsene.
Non serve costruire poster colorati o fare grandi manifestazioni per diffondere questi elementi, serve viverli ogni giorno, come leader, in prima persona, serve mostrarli con l’esempio nel quotidiano, serve rendere coerente con essi il sistema interno di premi e punizioni. Serve ricordarsi e ricordare che scopo e vision sono la base su cui costruiamo un grande successo collettivo.
L’amore è una viaggio continuo perché continuo deve essere il nostro desiderio di unione e di conoscenza dell’altro: quando smettiamo di voler capire, quando smettiamo di voler conoscere perché diamo per scontato ed ovvio chi abbiamo al nostro fianco, allora smettiamo anche di amare, e il viaggio finisce. Ho già scritto cosa vuol dire amare, ma voglio sottolineare come l’amore debba essere vissuto alla stregua di un viaggio senza fine.
Spesso siamo in cerca di risultati e obiettivi e vogliamo, anche in amore, raggiungere qualcosa: trovare la persona giusta, sancire la nostra unione, assicurarci che una relazione duri per sempre. Vogliamo poter dire di conoscere una persona, ci piace l’idea di avere la certezza che quella persona ci amerà e sarà nostra per sempre. Il solo modo perché sia per sempre è imparare ad amare ogni giorno, tutta la vita.
Una relazione stabile e felice non è un obiettivo, non arriviamo alla meta perché oggi ci svegliamo e pensiamo “adesso ho una relazione stabile”, non possiamo pensare che, una volta ottenuto il nostro scopo, il più è fatto. Una relazione non è qualcosa che si raggiunge oppure si conquista, è qualcosa che si costruisce giornalmente:l’amore è un viaggio, non una meta.
Semplicemente l’amore non si cerca, e quindi non si trova. Amare è un modo di essere e come tale non possiamo imprigionarlo in consuetudini e rituali, in obblighi e doveri, non possiamo avere l’amore di qualcuno, possiamo amare ed essere amati, possiamo scoprire e lasciarci comprendere. L’amore è un viaggio continuo perché ogni giorno abbiamo la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo, cogliere un paesaggio mai visto prima, notare dettagli che ci erano sfuggiti. Se viaggiamo per arrivare alla nostra meta ci perderemo tutto il percorso, ignorando che proprio il percorso, in realtà, è la nostra meta.
Pensi di conoscere il tuo compagno di viaggio? Sbagli. Un detto popolare asiatico ci invita a guardare con attenzione colui che non vedi da un giorno, poiché potrai notare grandi cambiamenti. Amare significa anche voler comprendere (non pensare di aver compreso) e voler conoscere, e questo vuol dire che ogni girono dobbiamo svegliarci con la gioia e la curiosità di scoprire l’altro come se fosse un nuovo incontro.
Il viaggio è la vera meta, il percorso il vero piacere, non esistono traguardi o destinazioni finali in amore, esiste solo la voglia di fare ogni giorno qualche passo in più, di osservare con maggiore chiarezza e profondità, di conoscere meglio, scoprire qualcosa di inaspettato. Quando guardi la persona che ami non puoi vedere qualcosa di ovvio e normale, ma devi osservare un universo in continuo movimento e desiderare di comprendere, anche oggi, qualcosa in più di questo spazio infinito.
Quando impariamo ad amare veramente, non osserviamo gli altri con la noia con cui un bimbo osserva i vecchi giochi: amare significa anche riconoscere che siamo unici e indefinibili, e voler sempre scoprire qualcosa in più.
Se è vero che siamo in un periodo economicamente difficile, mi sai spiegare come mai le spese Natalizie sono in aumento in tutta Italia? E sai spiegarmi come mai molte aziende chiudono mentre altre aumentano i propri profitti?
Una risposta viene chiaramente da un concetto economico molto semplice che anche tu conoscerai benissimo: c’è sempre crisi quando i clienti non comprano. E questo non vuol dire che non ci sia il denaro per farlo, ma che comunque i clienti mancano. Se alcune realtà migliorano i propri risultati è evidente che il denaro per riuscirci c’è.
Il problema è un altro: stiamo ottimizzando le nostre spese? Stiamo dando ai nostri potenziali clienti quello di cui hanno realmente bisogno? Siamo unici nella nostra offerta e offriamo qualcosa di realmente speciale? Abbiamo scelto di puntare sulla qualità? Sui servizi veramente efficaci ai nostri clienti? E i nostri clienti, sono realmente le persone a cui pensiamo o ci interessano solamente i loro soldi?
Queste domande se le deve porre per primo il leader: ha lui il dovere ed il ruolo per decidere, per cambiare, per comprendere cosa e come deve essere fatto, a lui spetta di definire una direzione e mostrare come arrivarci, ha il compito di guidare gli altri e coinvolgerli nel progetto. Se non lo farà il leader, tutto questo, a chi altri pensi che spetta?
Il modo migliore per far rendere al meglio i nostri investimenti è riuscire ad ottenerne il massimo, ed il più grande e significativo investimento che faccia un’impresa è sempre quello nelle risorse umane. A parità di stipendio, possiamo ottenere di più? Possiamo avere un contributo di maggior valore e significato? Possiamo avere un supporto importante al successo comune? Non sto parlando di lavorare di più, ma di lavorare meglio.
Se ti chiedessi quante sono le persone che conoscono gli obiettivi aziendali, in termini di cifre esatte, nella tua realtà, cosa mi risponderesti? Chi si trova al gradino più basso della gerarchia, conosce i piani futuri dell’azienda? Sa quanto vogliono fatturare in questo mese? Conosce i costi? Ha idea di programmi e cambiamenti futuri? È mai stato coinvolto nelle decisioni? Si sente più di un semplice numero? Ha mai potuto fornire un’idea, un’intuizione? Viene considerato per quello che può dare oppure solo per la mansione che deve svolgere?
E non ha senso che succeda qualcosa tra le tante elencate ogni tanto: deve essere una regola sempre valida: la ruotine dovrebbe essere che tutti i presenti sulla barca sappiano dove si va e perché, remino insieme di comune accordo, siano motivati a perseguire obiettivi che condividono e possano dire la loro sulle decisioni aziendali. Non pensare che questa sia anarchia, questa è condivisione, partecipazione,successo.
Stipendi uguali, soddisfazione e realizzazione personale, contributo, coinvolgimento, passione e interesse, impegno e qualità maggiori. Le persone lavorano per essere pagate, ma danno il massimo per essere trattate come persone di valore. Se tu sei il leader, questo tocca a te.
La prima guida pratica che ti spiega come trovare realmente lavoro. Il metodo si basa su una verità basilare: “Se vogliamo essere assunti da un’azienda dobbiamo porci come delle risorse, non come dei costi”. Questa semplice guida ci mostra come essere un investimento per le aziende.
Indice
1. Cosa voglio fare da grande?
2. An ghin go il curriculum a chi lo do?
3. Dossier lavoro
4. Scrivere un curriculum vincente
5. Europeo per forza?
6. Ah già, la lettera di presentazione!
7. Il colloquio non è un esame… ….ma preparati comunque
“Qualsiasi cosa mi accada In una determinata situazione, io la posso affrontare. Riuscirò ad affrontarlo!”
In un agile libro, che si legge veramente in poche ore, Susan Jeffers condensa interessanti spunti di riflessione, idee e consigli pratici per comprendere meglio le proprie paure e affrontarle. L’unico modo per vincere una paura, in fondo, è guardarla dritta negli occhi e correrle incontro, avendo il coraggio di agire.
Nel libro vi si possono trovare alcuni esercizi interessanti per dare corso pratico alle nostre intenzioni di affrontare paure che fin ora ci hanno bloccati e impedito di vivere una vita piena, appagante e felice.
Un testo piacevole e utile, che parla di sicurezza e consapevolezza, di responsabilità personale, pagine da leggere per chi vuole una spinta in più nel proprio percorso di crescita personale.
Come rispondere a questa domanda: genio si nasce o si diventa? Ed il talento quindi, è qualcosa che abbiamo dalla nascita oppure qualcosa che possiamo sviluppare nel tempo?
Qualche mese fa lessi un libro che parlava proprio di questo, dal titolo “La trappola del talento”, scritto da Geoff Colvin. La teoria di fondo è che il talento sia qualcosa che si impara a sviluppare attraverso l’esercizio ed il duro lavoro, non una capacità innata. Ci sono ovviamente alcuni individui più predisposti, ma la differenza la fanno l’impegno, l’allenamento e anche l’ambiente in cui cresciamo.
Qualche sera fa, poi, ho visto un interessante programma del canale BBC knowladge sul digitale terrestre: alcuni ricercatori sostengono la presenza di un gene dell’apprendimento, una componente fondamentale per imparare e migliorare, insomma, determinante per sviluppare ancheil talento. Sembrerebbe che questo gene sia più o meno attivo in ognuno di noi (ancora i test sono stati effettuati solo sui topi).
Un altro ricercatore, attraverso la scansione del cervello umano durante una partita di scacchi, è arrivato alla conclusione che le doti scacchistiche siano presenti, e immutabili, sin dalla nascita. Gran Maestro si nasce e non si può diventare.
Ma il nostro cervello è plastico. Una donna, mostrava la trasmissione, ha imparato, causa la cecità, a leggere i suoni che vengono prodotti da un apparecchio che converte in segnali audio le immagini acquisite tramite una videocamera. Abituando la sua mente ha imparato a vedere attraverso le orecchie. Un giovane trentenne, autistico e cieco, suona meravigliosamente il pianoforte trovando sufficiente ascoltare una o due volte soltanto una melodia per riprodurla. Alle spalle ci sono però ore e ore di lavoro e sacrificio.
Mozart è considerato uno dei maggiori rappresentanti della genialità della nostra storia, ma pochi sanno che alle spalle del suo incredibile talento c’era un padre ottimo maestro di musica e ore di lavoro sin dalla tenerissima età. Aveva probabilmente una capacità particolare, ma se non avesse avuto l’ambiente adatto e avesse dedicato la sua vita a fare altro, sarebbe divenuto il talento che conosciamo?
Io sono convinto che tutti possiamo sviluppare la capacità di fare qualunque cosa: è vero che chi è predisposto impara più facilmente di altri, ma se ci impegniamo seriamente in qualcosa possiamo raggiungere grandi risultati. Conta molto la conoscenza e la preparazione: Mozart era un eccellente compositore, ma non dimentichiamo che aveva una preparazione musicale fuori dal comune, e non certo per motivi genetici.
Ognuno nasce con una predisposizione differente, ma tutti abbiamo lo stesso potenziale: mettere in pratica ciò che ci piace, dare spazio alle nostre passioni e coltivarle. Questo credo sia il vero segreto del talento e del genio: amare profondamente quello che si fa e dedicare il massimo impegno e la massima attenzione. Ciò implica non solo allenarsi, ma vivere quotidianamente la nostra passione.
Possiamo allenare la creatività, possiamo sviluppare il nostro talento. Come sempre è una scelta a nostra disposizione.
Un agile opuscolo che ti spiega i concetti di base della crescita personale: abbiamo dentro di noi un enorme potenziale, risorse incredibili che spesso lasciamo inutilizzate. Comincia a divenire consapevole delle tue possibilità e diventa ciò che sei nato per essere.
Indice
La vita è una tua responsabilità
Crescita e sviluppo personale
Disoccupazione e crescita personale
La nostra vita la creiamo noi stessi.
Timido e insicuro? Qualche pillola di autostima.
Adolescenza e crescita personale
Vorrei, ma non posso. E chi lo dice?
Cosa significa leadership
Cosa ci rende pienamente umani
Leadership e lavoro
Siamo tutti qui per un solo motivo: amarci l’un l’altro.
Una guida agile e pratica per diventare una grande leader e ottenere grandi performance: dalla gestione degli obiettivi al lavoro di squadra, dalla delega al coinvolgimento collettivo, dalla disciplina personale alle regole della motivazione. Devi essere un leader per avere successo e questo agile manuale ti spiega come fare.
Stavo navigando in rete, qualche giorno fa, cercando risorse interessanti e spunti per approfondire concetti come l’autostima e la sicurezza in se stessi, quando noto un’immagine associata proprio all’autostima: un gatto dal pelo rosso che stava guardandosi nello specchio stile Biancaneve. Invece di sentirsi rispondere alle sue domande, come avveniva per la strega del cartone animato, il gatto vedeva riflesso un leone. Questo mi ha fatto venire in mente come spesso, il concetto di autostima sia ampiamente frainteso.
Pensando all’autostima, infatti, capita che molti siano convinti che essa sia la convinzione di essere superiori, capaci di ottenere tutto dalla vita, direi quasi invincibili: viene da pensare che tutti i supereroi dei fumetti siano dotati anche di una notevole autostima, oppure che le persone di successo, propri per i risultati ottenuti, siano necessariamente convinte del loro valore. Se credi anche tu che avere autostima significa guardarti allo specchio e vedere al posto del tuo fisico l’addominale scolpito di un atleta professionista, beh, vuol dire che confondi l’autostima con l’auto… illusione.
Avere una sana autostima, infatti, non vuol dire avere una visione distorta della realtà, non significa vedersi più forti o in gamba, più belli o capaci di quanto non siamo realmente. Di solito tendiamo a sottovalutare il nostro talento e le nostre potenzialità, finendo per porci dei limiti assurdi perché non abbiamo imparato a valutare il nostro reale valore. Agire in senso opposto, ossia sopravvalutarci, non è però meglio, anzi può anche essere peggio: se ci convinciamo di essere infallibili saremo più vulnerabili agli insuccessi. Coloro che hanno una sana autostima sanno che possono fallire, gli capita come a tutti gli altri, la differenza fondamentale è che questo non incrina per nulla la loro consapevolezza di quanto valgono.
Avere autostima non significa guardarsi nello specchio e vedersi leoni quando si è gatto, ma riconoscere che siamo dei gatti, che abbiamo delle incredibili qualità senza dover ruggire o dominare nella savana. Avere una sana autostima significa saper valutare il nostro valore, saper comprendere quanto valiamo indipendentemente dai risultati che riusciamo ad ottenere, non dipendere dal successo o dal fallimento, dall’approvazione o della critiche degli altri per definire il nostro valore.
Per avere autostima dobbiamo capire che il nostro valore, le nostre qualità, il nostro potenziale, sono tutti fattori presenti a prescindere da quello che gli altri pensano e dei tributi che ci vengono riconosciuti. La nostra autostima è tanto più forte quanto siamo capaci di andare nella direzione in cui nessuno va, nonostante tutti ci critichino per questo, per il semplice fatto che noi siamo profondamente convinti che sia la strada giusta. Certo, non dobbiamo confondere i baffi del gatto con i denti del leone!
Pensare di dover diventare qualcosa di differente e migliore di quello che sei, per poter avere una sana autostima, è un’illusione che la nostra società propina facilmente per vendere idee e prodotti: se non stimi chi sei adesso, non lo farai neanche dopo, finirai per dare valore all’immagine che ti sei fatto di te e non a te stesso. Alla fine il gatto lascia lo specchio ed esce fuori in strada: lì non conta l’immagine che ti sei fatto, conta ciò che sei veramente, questo è il cuore della tua autostima.
Credo che a tutti sia capitato di avere persone che non seguono i nostri consigli, specie quando sono sensati e sarebbero il modo migliore di agire, ma quando si tratta di un figlio le cose si complicano: sentiamo la responsabilità del ruolo di genitore e abbiamo intenzione di offrire loro il meglio, di permettere una vita felice e piacevole. Non che questo basti a convincere i ragazzi a darci retta!
Se anche tu ti trovi spesso a combattere con tuo figlio o tua figlia perché non si comporta in un certo modo, perché non ascolta quello che gli o le consigli o perché sta scegliendo una strada che ritieni sbagliata e pericolosa, allora voglio darti un utilissimo suggerimento per affrontare questa situazione.
Prima di tutto devi renderti conto che costringere qualcuno a fare qualcosa non serve a nulla: prima devi stare sempre a controllare, poi non ottieni un cambiamento che duri, infine non fai cambiare idea e magari rovini anche il vostro rapporto. Non ottieni quel che volevi e peggiori la situazione, poiché magari perdi anche la fiducia come consigliere. Se già hai commesso questi errori e non sei tenuto troppo in considerazione quando dici la tua, non temere, si può sempre cambiare, ed ecco cosa devi fare:
Innanzi tutto devi capire cosa gli interessa e cosa vuole. Quali risultati vuole ottenere? Si comporta in un determinato modo per quale ragione? Ha fatto o sta facendo delle scelte per quale motivo? Se non sai questo non sarai mai capaci di prestare il tuo aiuto
Potrai a questo punto trovare opportuno, o sbagliato, questo interesse, questo obiettivo. Ovviamente devi essere sicuro che sia il motivo reale e non una scusa che nasconda qualcosa di più importante. Se trovi che sia una cosa positiva devi dare il tuo aiuto così come ti viene richiesto: non fare quello che pensi serva, ma mettiti a disposizione e stai pronto per dare appoggio, sostegno e aiuto quando e come ti verrà chiesto. Non devi mai imporre il metodo che trovi migliore ma aiutare tuo figlio a trovare il suo, magari suggerendogli qualche idea ma sempre senza mai importi. Usa le domande e vedrai che otterrai ottimi risultati.
Se invece non condividi l’obiettivo evita assolutamente di ostacolarlo: non servirebbe a impedire che continui a piacergli e magari peggiora le cose. Invece sforzati di comprendere i suoi motivi, le sue ragioni, cercando di farlo riflettere sui pro e contro: sii obiettivo perché se cerchi di tirare l’acqua al tuo mulino se ne accorge e non si fida delle tue idee. Devi mostrargli che hai veramente a cuore il suo interessema che rispetti anche le sue scelte. Invece di opporti devi insinuare dubbi concreti, per cui informati per capire se le tue pure sono fondate.
In conclusione non dirgli cosa deve fare, scopri invece cosa vuole fare e aiutalo a farlo dando la tua disponibilità senza imporre il tuo modo di agire. Usa molto le domande ed evita di sminuire le sue idee. Il modo migliore perché tuo figlio ti ascolti è che si convinca da solo che puoi aiutarlo e che sempre da solo capisca che i tuoi consigli sono utili e vogliono solo aiutarlo.
L’errore di molti genitori è volere che i figli facciano quello che loro dicono, ma il segreto e far si che i figli vogliano fare quel che i genitori consigliano loro: il rispetto non si può pretendere, si può solo meritare giorno dopo giorno.
Questo è stato uno dei primi libri che ho letto di Mandino, considerato uno dei maggiori esperti di motivazione del mondo: l’ho trovato ottimo. All’interno sono raccolte storie e aneddoti apparsi sulla rivista SuccessUnlimited di cui lo stesso Mandino si occupava.
Ogni racconto contiene idee, riflessioni e spunti per coloro che vogliono migliorare la propria vita, una fonte veramente utilissima di spunti per la propria crescita personale. Devo ammettere che si tratta di pagine molto ricche, da leggere e tenere a portata di mano per dare un ripasso a qualche idea, di tanto intanto.
Molte persone oggi si lamentano di fare una vita “noiosa”: vedere sempre le stesse persone, frequentare i soliti locali, fare ogni giorno le cose fatte quello precedente. Ci si lamenta della propria città che non offre divertimenti o svaghi creativi e nuovi. Anche il lavoro, molto spesso, ci appare noioso e ripetitivo, scontato.
In realtà non è la nostra vita ad essere noiosa, così come non lo sono le nostre amicizie oppure il lavoro o la nostra città: la noia sta dentro di noi. Potremmo guardare lo stesso panorama e non stancarci mai, eppure dopo qualche settimana ci stufiamo della “solita” canzone.
Per chi vuole mettere al bando la noia e godersi di più la vita, ecco qualche idea per incominciare:
Per prima cosa dobbiamo renderci conto che ad essere noioso è il modo in cui guardiamo le cose. Invece di darle per scontate, considerandole ovvie e banali, inizia a osservare tutto con curiosità.
Dedicatevi alle vostre passioni: inizia a fare un elenco di tutte le cose che ti appassionano o entusiasmano, quelle attività che ci fanno stare bene ma soprattutto che coinvolgono e catturano attenzione ed interesse, quasi a far perdere il senso del tempo. Quindi dedicati ad esse spesso.
Aggiungi in ogni cosa fatta, anche la più monotona e ripetitiva, un tocco di fantasia: che sia il cantare mentre lavori, cambiare strada per andare a fare la spesa, inventare un gioco da fare con gli amici al solito locale dove vi incontrate.
Fatti una domanda importante: “cosa esattamente mi annoia in quello che sto facendo? Come potrei farlo diversamente per divertirmi di più? Che cosa lo renderebbe diverso dal solito?”. Quindi idea più di una risposta per ogni attività “noiosa”.
Inizia a dare valore alle cose: invece di vivere in maniera frenetica ogni cosa, prova a ridurre il ritmo, ad esempio non uscendo con gli amici ogni sera o non andando a ballare tutti i sabati (un concerto all’aperto, un buon libro oppure una “serata dvd” possono essere alternative interessanti).
Il consiglio più efficace è quello di cambiare atteggiamento. Anche facendo sempre le stesse cose, ed allo stesso modo, possiamo non annoiarci mai. Dipende da noi, la noia è un modo di vedere le cose, cambiare atteggiamento rivoluziona totalmente le nostre esperienze.
Ricapitolando:
1.Impariamo ad essere più curiosi 2.Riscopriamo le passioni e dedichiamogli del tempo 3.Aggiungiamo alla routine un tocco di fantasia 4.Troviamo idee per combattere la noia 5.Impariamo a variare le nostre attività 6.Cambiamo atteggiamento
Occupandomi di crescita personale, aiutando le persone a migliorare la propria vita, a realizzare obiettivi e desideri cui ambiscono, o semplicemente confrontandomi con persone che hanno punti di vista anche molto differenti dal mio, mi rendo conto di quanto la disciplina sia una qualità spesso carente, ma al contempo poco ricercata.
Purtroppo, quando si parla di disciplina, viene in mente una forma di imposizione, una serie di regole rigide che qualcuno ha stabilito e che noi subiamo; quasi a dire che la disciplina è l’esatto contrario della libertà, una forma di costrizione, o auto-costrizione, che ci si impone ma che inevitabilmente corrode la spontaneità e la genuinità.
In realtà, per come la intendo io, la disciplina è una qualità indispensabile per vivere una vita felice e realizzata. Per disciplina intendo quell’ordine e quella capacità di gestire e controllare le risorse a nostra disposizione, la capacità di mobilitarci per uno scopo, di avere un ordine e una chiarezza indispensabili per raggiungere qualsiasi risultato desideriamo.
Lungi dall’essere una forma di schiavitù, la disciplina è una componente fondamentale della Vera Libertà: solo coloro che sono capaci di controllare istinti e bisogni, solo coloro che sono in grado di essere indipendenti da ciò che li circonda, sono veramente liberi. La disciplina ci permette di mantenere la nostra autonomia rispetto agli altri, alle circostanze, ai bisogni e alle tentazioni di ogni genere.
Spesso bisogna saper procrastinare un piacere per raggiungere un traguardo importante, e questa è disciplina. A volte è necessario mantenere salda la nostra convinzione nonostante incertezze e dubbi, anche questa è disciplina. Spesso dobbiamo essere capaci di focalizzare la nostra concentrazione sul nostro obiettivo, per raggiungerlo, e pure questa è disciplina: è quindi, per come la intendo io, una chiave di volta per una vita grandiosa, ma purtroppo non si insegna nelle scuole (quello che si impartisce lì è l’obbedienza alle regole, cosa differente).
La disciplina non è una serie di norme che qualcuno ci impone, ma la nostra capacità di auto regolarci, di prendere il controllo della nostra vita, di mantenere saldamente le mani sul timone. La disciplina, come qualità fondamentale per la nostra vita, è una regolazione interna, non è mai imposta, non viene da fuori, ma nasce da dentro, nasce da noi stessi.
Spesso è stata mostrata come una forma di indottrinamento etico e comportamentale, ma io la concepisco come un livello di autonomia, responsabilità e consapevolezza, come la capacità dipiegare le nostre abitudini alla nostra volontà. E fortunatamente si può imparare.
Qual è il compito di un genitore? Educare i propri figli sembra la risposta più semplice ed immediata, ma questa induce ad una domanda ulteriore: che vuol dire esattamente e, soprattutto, come devono essere educati i propri figli?
Cominciamo dal problema su cosa voglia dire educare: letteralmente, derivando dal latino, significa tirare fuori e dovrebbe pertanto essere quel processo attraverso il quale il genitore, ma anche l’insegnante ad esempio, aiuta il proprio figlio ad esprimere il suo potenziale individuale, potenziale presente in ognuno di noi che aspetta, appunto, di venir espresso.
Come educare i propri figli? Tante scuole di pensiero e tanti sistemi educativi propongono altrettanti, differenti e a volte controversi, sistemi di educazione. La cosa singolare, però, è che quasi tutti, almeno quelli più utilizzati e approvati, non sono affatto tali: se educare, come detto, significa tirar fuori, dobbiamo ammettere che i sistemi utilizzati sono rivolti più a mettere dentro, a inculcare certe verità, a spiegare come si fanno le cose, come ci si comporta. Il presupposto, sbagliato a mio avviso è che da soli i bambini non maturerebbero mai.
Seguendo questa ideologia priva di ogni dimostrazione concreta, i genitori finiscono per comportarsi in modo tirannico,imponendo, come a loro volta era stato imposto, un certo sistema di regole e valori, spesso senza prestare attenzione ai reali desideri dei figli, spesso senza laconsapevolezza se questo sistema, che appare l’unico possibile, sia anche un buon sistema. L’obbedienza la crea, è vero, ma è un’obbedienza forzata, che distrugge la creatività e la libertà di ogni individuo, per spingerli poi, una volta adulti, a cercare di rimettere a posto i frammenti di quello che sarebbero potuti essere ma non gli è stato permesso di diventare.
I genitori devono porsi come delle guide, ossia come persone che hanno per prima sviluppato il loro potenziale, realizzato il loro valore, che siano diventatati ciò che erano nati per essere. La guida deve avere intrapreso il cammino per poterlo mostrare agli altri. I genitori hanno il dovere di crescere come persone per primi e di dare l’esempio più importante in assoluto: dimostrare che possiamo diventare ciò che siamo, che possiamo esprimere tutto il potenziale dentro di noi. Questo è il vero esempio che devono dare gli educatori.
La guida sarà tale, come deve essere un genitore, non perché ha il potere di fare e decidere, ma perché sa dove andare e sono i figli a riconoscergli la sua autorità. Sta definitivamente tramontando l’epoca in cui si poteva imporre il proprio potere, deve nascere un tempo in cui i figli vogliano prendere i genitori come guide e modelli. Solo se loro sceglieranno di seguirti potrai guidarli, altrimenti si tratterà di spingere o strattonare in una direzione senza coinvolgimento.
Ogni genitore, sono convinto, desidera per i propri figli una vita come persone libere e felici: educare attraverso la paura e l’imposizione non servirà a questo. Il primo atto d’amore che possiamo fare verso i nostri figli è lasciarli liberi di essere ciò che sceglieranno di essere, imparando a porci come guide che possano scegliere di seguire.
L’amore è una scelta libera, una nostra volontà di dare incondizionatamente agli altri e dipende necessariamente dalla nostra libertà di amare, libertà che passa dalla nostra indipendenza emotiva.
Con questa espressione mi riferisco alla nostra capacità di essere emotivamente indipendenti, ovvero non subire emotivamente gli eventi, le situazioni, le persone con le loro scelte ed i loro comportamenti.
Questo vuol dire capire che le emozioni che proviamo non sono dovute a quel che accade o alle persone che incontriamo, ma sono legate a noi: dipendono da come interpretiamo le sensazioni che persone ed eventi ci trasmettono. Le emozioni non dipendono dagli altri ma da noi stessi.
Essere emotivamente indipendenti è necessario per poter amare, poiché solo se siamo liberi daqualsiasi dipendenza dagli altri, solo se ci liberiamo dal bisogno degli altri, possiamo effettivamente amarli.
Il bisogno nasce dalla pretesa che gli altri ci diano emozioni positive, siano felicità, amore, soddisfazione, sicurezza, importanza, rispetto, accettazione o stima. Fino a quando siamo dipendenti dagli altri per avere queste “dosi” di benessere, saremo incapaci di amarli. Nasceranno relazioni basate sul bisogno reciproco e non sull’amore.
Amare è un dare incondizionato, ovvero senza nessuna richiesta, senza volere amore a nostra volta, senza bisogno di sentirci sicuri o importanti. Se invece cerchiamo tutto questo in un’altra persona finiamo per utilizzarla per soddisfare questi bisogni. E se siamo dipendenti da qualcuno, se noi ne siamo subordinati, allora non siamo in grado di amare.
Dal bisogno nasce paura e timore, durezza di cuore e aggressività, perché le persone diventano la fonte da cui traiamo ciò che ci serve e ci interessiamo a loro solo fintanto che possiamo ottenere questo appagamento. Se ciò viene meno, perdiamo di interesse nei loro confronti.
Essere indipendenti emotivamente vuol dire anche aver preso consapevolezza che non abbiamo bisogno degli altri per stare bene o essere felici, che amare è dare e non ricevere, che la sicurezza riposa in noi ed in nessun altro, che le nostre emozioni ci appartengono.
Da questa consapevolezza nasce una vita piena ed appagante in se stessa, trovando dentro di noi le risorse di cui abbiamo realmente bisogno. E quando non abbiamo bisogno degli altri, quando emotivamente siamo indipendenti, ecco che possiamo scegliere di amarli, non perché ci diano qualcosa di cui necessitiamo per vivere, ma solo perché scegliamo di donare loro quanto abbiamo, di condividere la nostra storia e la nostra felicità.
Il bisogno nasce dove c’è dipendenza, soprattutto emotiva, l’amore, invece, dall’esatto contrario: dall’indipendenza emozionale, dalla nostra libertà.
Credo che questo sia uno dei consigli più interessanti per sviluppare e variegare il tuo percorso di crescita personale, idea che tra l’altro non ti costringe a trovare un partner per il tuo percorso.
Parla con amici, colleghi, aprenti, ma anche conoscenti( in fila la supermercato, in attesa dal commercialista, fuori della scuola o in salumeria) e chiedi loro consigli per una lettura che hanno trovato particolarmente utile o illuminante in un certo momento della loro vita.
Lo stesso può essere fatto per un film (non chiedere uno che sia piaciuto, ma uno che abbia lasciato un messaggio importante) o per la musica (anche in questo caso musica che abbia ispirato). In questo modo entrerai in contatto con risorse che magari ignori esistano e potrai ampliare punti di vista e visione personale.
Sarebbe bello, poi, che scambiassi anche le tue idee con loro, magari originando dal niente un rapporto di crescita reciproco che divenga, perché no, una solida e bella amicizia.
Essere o avere? Mentre Shakespeare si chiedeva se essere o non essere, oggi la domanda che l’uomo può porsi è se avere, e da questo dipendere per la sua sicurezza, la sua stima, il suo prestigio ed il suo successo, oppure essere. In pieno accordo con lo psicanalista e filosofo Tedesco, sono certo che la modalità dell’essere è l’unica vera modalità dell’uomo intese come essere umano.
In questo interessantissimo testo Fromm passa in rassegna non solo la differenza teorica tra essere o avere, ma analizza cosa distingua le due modalità in svariati ambiti, dall’amore al potere, dalla conoscenza alla sicurezza. Tra le pagine di quest’opera si trova un seme importantissimo del pensiero critico: ragionare con la nostra mente è fondamentale per smascherare le trappole di vivere una vita nella modalità dell’avere.
Nonostante ciò oggi si vede proprio questo: una rincorsa ad avere sempre di più, e che si tratti di auto, case, denaro, titoli accademici, relazioni, conquista sessuali, prestigio o notorietà non ha importanza. Tra queste pagine risuona chiaro il nostro interesse a vivere secondo la modalità dell’essere. Un percorso di crescita personale non può nascere che da questo presupposto.
Di Marco Masini, Il cielo della Vergine,Tobia Music/Dischi Ricordi 1995
“… dai sempre tutto a chi Non ti può dare niente, e Fai del cuore il tuo salvadanaio,
e se ti sfiora un soffio d’infelicità,
fatti furbo, e prendi questa vita come va.”
Una delle canzoni più belle di marco Masini, un testo che parla di saggezza, di furbizia in senso buono. Tra le righe di questa canzone sono nascoste idee e spunti per riflettere. Un brano da ascoltare pensando, come ormai non accade spesso nella musica. Al testo da assaporare parola per parola si aggiunge una melodia che rende questo un pezzo da ascoltare.
Quando parliamo delle qualità che un leader deve possedere per essere in grado di guidare coloro che lo seguono, non possiamo tralasciare una delle caratteristiche fondamentali per una leadership ottimale, ovvero la responsabilità. Con questo termine si intende, di solito, la capacità di una persona di farsi carico della propria vita, o del proprio lavoro, comunque in genere delle proprie azioni e delle proprie scelte. Di solito è un concetto che fa rima con maturità, nel senso che si attribuisce ad una persona matura un comportamento responsabile.
Letteralmente essere responsabili significa essere abili a rispondere, il che si traduce, in pratica, nella capacità di rispondere delle nostre azioni, delle nostre scelte, e soprattutto di far fronte alle conseguenze che da esse derivano. Una persona responsabile è chi non si nasconde dietro un dito, chi non scarica le responsabilità, appunto, su altri o sulle circostanze, ma risponde in prima persona di tutto ciò. Per un leader è fondamentale.
Nessuno ha piacere ad aver a che fare con persone che si nascondono sempre di fronte alle conseguenze delle loro azioni o che non si assumono mai la responsabilità di agire. In particolare essere leader comporta la capacità e la consapevolezza di assumersi la responsabilità delle proprie scelte e azioni, ma anche delle proprie reazioni con gli altri, del proprio stato d’animo, delle conseguenze a volte negative di scelte apparentemente giuste, del proprio tempo e dei propri errori, delle proprie emozioni e della propria libertà: un leader, più di chiunque altro, deve capire che la nostra vita è una responsabilità individuale.
Se non siamo capaci di assumerci quelle che derivano dalla nostra vita, come possiamo farlo per tutte quelle derivanti dell’essere leader per molti? Dall’essere un esempio, un punto di riferimento a cui si guarda, spesso, per capire la direzione da prendere?
Essere leader necessita la nostra capacità di essere responsabili, innanzi tutto, del proprio ruolo di leader, comprendere che questo comporta conseguenze a cui non ci si deve mai sottrarre. Scappare di fronte all’altra faccia della medaglia (siamo liberi di agire ma non di decidere le conseguenze delle nostre azioni) è sintomo della mancanza di quella maturità necessaria a qualsiasi leader.
Naturalmente non tutti coloro che sono a capo di altre persone o che dirigono e comandano uomini nei più svariati contesti sono esempio di responsabilità, e spesso la evitano accuratamente; ma io qui sto parlando di leader, ed essere leader è una responsabilità.
L’autostima è una variabile importante per vivere una vita serena, ma spesso è considerata carente in moltissimi giovani. Alcune ricerche americane spiegavano come il livello di una buona autostima fosse alto al momento di cominciare il percorso scolastico (circa nell’80% dei casi), salvo ridursi ad un minimo 5% alla fine del percorso stesso, raggiunta ormai la maturità. Non prendiamo certi dati come oro colato, anche perché esistono differenza nei test e nelle valutazioni e non sempre il concetto di autostima messo in evidenza è quello che ritengo giusto.
Educare l’autostima, ossia insegnare sin da piccoli ai propri figli come accrescere la propria sicurezza e la fiducia in se stessi, è un aspetto determinante per ogni genitore, ma non solo: proprio questi dati mi hanno spinto a chiedermi se la scuola, anche in Italia, sia all’altezza di infondere negli studenti una sana autostima o meno.
Ancora prima di divenire adolescenti, periodo in cui spesso l’autostima è una carenza diffusa, i bambini possono imparare a sviluppare la loro autostima, a credere in loro stessi e nel loro potenziale, che anche da piccoli non è mai assente. Poiché l’autostima, come appunto suggerisce la parola, altro non è che la mia personale valutazione di quanto valgo, allora sin da piccoli possiamo imparare a stimarci, possiamo imparare a farlo in modo positivo.
L’autostima non dipende dal giudizio degli altri (neanche da quello dei genitori), non dipende dai successi personali o dalle sconfitte, ma da come noi valutiamo tutto questo, dal mondo in cui giudichiamo il nostro valore. Da piccoli abbiamo bisogno che siano gli altri a riconoscerlo per primi, ma soprattutto, che ci venga mostrato come farlo da soli. I bambini devono imparare ad usare la propria testa, non accettare indiscutibilmente ciò che non capiscono ma rifletterci su, valutare personalmente.
Spingere i propri figli a stimare comportamenti e scelte è importante perché poi loro siano in grado, crescendo, di pensare in modo autonomo anche del proprio valore. La carenza di autostima è legata strettamente all’incapacità di cogliere in modo critico giudizi e critiche, successi e sconfitte. I bambini devono imparare a esprimere il loro parere su tutto, a non dare più importanza al giudizio degli altri che non al proprio.
Ai genitori spetta il compito di guidare i figli, e farlo senza imposizione ma coinvolgendo (a discrezione dell’età, ovviamente) è la base principale di una sana educazione. I figli devono essere resi autonomi, è questo significa aiutarli ad usare la loro mente in modo costruttivo, critico e creativo.
I bambini che crescono scoprendo che il loro valore è un giudizio che spetta a loro e non agli altri saranno adolescenti liberi, adolescenti in grado di prendere la loro strada e non quella del “branco”, in grado di sviluppare il loro potenziale e ridefinire le caratteristiche stereotipate dell’adolescenza.
Sebbene l’amore sia teoricamente la cosa più importante che cerchiamo nella nostra vita, le relazioni faticano a durare, i divorzi o le separazioni aumentano e sempre più giovani temono di non trovare “la persona giusta”, “l’amore della propria vita”. Mi chiedo quindi cosa caratterizzi la relazione di una coppia che resiste allo scorrere del tempo e al sopraggiungere delle tempeste.
Riflettendo su cosa vuol dire amare e comprendendo che l’amore è una a scelta frutto della nostra libertà, sono giunto a questa conclusione: la coppia non è l’incontro di due persone che cercano l’amore, ma di due persone che intendono amarsi.
Anche se a prima vista sembra essere la stessa cosa, in realtà esiste una differenza fondamentale per comprendere cosa voglia dire realmente creare una relazione solida che possa durare. Fare coppia è diverso dall’essere coppia.
Quando la relazione esiste tra due persone che desiderano essere amate, che si uniscono in cerca dell’amore, si tratta di una relazione basata sul ricevere, dove entrambi i partner sono lì perché vogliono essere amati, vogliono “trovare” l’amore. Sebbene questo sembri normale, in realtà significa che il motivo del loro rapporto è la pretesa dell’amore. Si ameranno, forse, ma solo nella misura in cui questo gli consentirà di ricevere ciò di cui hanno bisogno.
Se la relazione nasce per soddisfare un bisogno individuale – quello di essere amati –, allora ognuno di loro pretenderà che l’altro lo ami: amerà, a sua volta, solo in funzione di ricevere ciò che gli interessa e solo fino a quando lo potrà avere. Essere amati dovrebbe essere una conseguenza e non il motivo dell’amore: la scelta reciproca di amarsi comporta che ognuno riceva amore, ma non lo pretenda prima: non è la causa ma la conseguenza.
Una coppia che si fonda sulla volontà di amare, è unita dal desiderio di dare, senza pretendere di avere nulla in cambio. La felicità nasce dall’amare, dal poter darsi all’altro e non dal ricevere amore o attenzioni. Questa relazione, che potrebbe sembrare oggi irrealizzabile, è una scelta di amore, non di bisogno. È questo il vero amore, quello eterno. Questo singifica essere coppia.
Non nasce dall’egoismo di avere, non porta pretese, non spinge a fuggir via al venir meno di qualcosa, proprio perché non è per ottenere qualcosa che i due si amano. Se la relazione è figlia della scelta di amarsi, essa potrà durare per sempre.
La coppia, sono convinto, è formata da due persone che si uniscono per donarsi incondizionatamente amore, non con lo scopo di riceverlo, ed è questa la strada da percorrere, oggi più che mai.
Forse tutti quanti, almeno una volta nella nostra vita, abbiamo pensato che se solo gli altri fossero stati più qualcosa o meno qualcos’altro, tutto sarebbe stato migliore, noi avremmo ottenuto ciò che volevamo e magari saremmo stati anche felici.
È facile che in una relazione ci sia la tendenza a voler cambiare nel proprio partner aspetti del carattere che non ci piacciono, abitudini che riteniamo “sbagliate” o comportamenti che se rimossi renderebbero questa persona “migliore”.
Una storiella racconta di un signore che si reca dal medico per avere una cura per il suo malessere. Il dottore, dopo averlo visitato, gli consegna un farmaco prescrivendogli di darlo almeno due volte al giorno al suo vicino di casa. Il paziente risponde: “Adesso sto già meglio”. Si dice per ridere, certo, ma infondo rivela quella convinzioneche sia il resto del mondo a dover cambiareper farci stare meglio.
Siamo sempre convinti, quando iniziamo una nostra “crociata”, che la nostra posizione sia più obiettiva, che vediamo le cose nel modo giusto, che abbiamo ragione, che gli altri non se ne accorgono adesso, ma capiranno più tardi. Lottiamo per rendere il mondo migliore cercando di cambiare l’unica cosa che non possiamo in alcun modo modificare:gli altri.
Se veramente siamo certi che un cambiamento porterà miglioramenti e vogliamo che il mondo là fuori se ne giovi, quel cambiamento è dentro di noi che dobbiamo realizzarlo. Siamo noi a dover cambiare.
In un film, The Matrix, il protagonista incontra un ragazzo che è in grado di piegare con la sola forza di volontà un cucchiaio. Invitato a fare altrettanto inizia a tentare inutilmente. Il ragazzo lo invita allora a non guardare alle apparenze cercando di piegare il cucchiaio, ma di “giungere alla verità”: accorgersi cioè che il cucchiaio non esiste e che il solo modo di piegarlo e piegare se stesso.
Solo a distanza di qualche anno ho dato un senso a questo episodio capendone il vero messaggio: la realtà cambia perché cambiamo noi. È impossibile modificarci senza creare un cambiamento attorno a noi, nelle cose e nelle persone.
La cosa saggia che possiamo fare è comprendere che non abbiamo il potere, né il diritto, di pretendere che gli altri cambino, ma abbiamo entrambe le cose se il cambiamento lo cerchiamo in noi. “Siate il cambiamento che volete vedere nel mondo” disse Gandhi. Invece di guardare in cosa gli altri dovrebbero cambiare, pensiamo a cosa possiamo fare noi stessi, dove dovremmo migliorare, in cosa ancora non siamo come vorremmo.
Invece di pensare “se solo tu fossi…” iniziamo a pensare “come vorrei essere?”, invece di guardare fuori della finestra, iniziamo a guardare nello specchio. Cambiando noi stessi, cambieremo anche il mondo attorno a noi.
Siamo convinti che avere un bell’aspetto, che coloro che sono considerati belli ed attraenti, sia uomini che donne, abbiano anche una buona autostima. Come potrebbero, d’altronde, delle persone così belle non stimarsi? Come potrebbero non avere sicurezza visto il fascino che esercitano e l’ammirazione che ricevono da tutti? Invece capita spesso che queste persone manchino di autostima come tante altre.
Spesso sono le persone che si giudicano brutte a chiedermi aiuto per migliorare la propria autostima, perché non avendo piacere del loro aspetto non riescono a vedersi come persone di valore. Si fa presto a dire che il valore è interiore e non estetico, ma infatti è proprio così. Dobbiamo poi non scordarci che la società e la cultura in cui cresciamo esaltano l’aspetto fisico rendendolo una caratteristica fondamentale per il successo e la felicità.
Facciamo ordine: la stima di se non dipende dal nostro aspetto fisico ma dalla nostra valutazione del nostro aspetto. Questo è determinante e spiega come mai non tutte le persone attraenti abbiano autostima (spesso non è altro che stima del proprio aspetto e non di se stessi) o alcune meno attraenti invece siano sicure di sé. Tutto dipende dalla nostra interpretazione. Se non impariamo a valutarci con la nostra testa seguiremo il giudizio comune, quello cioè legato a canoni socio-culturali, canoni che variano e hanno poco a che vedere con il valore delle persone.
Pensare che un aspetto attraente sia fonte di stima, poi, è fuorviante. Spesso le persone che ripongono la propria sicurezza nell’aspetto sono insicure, ossessionate dall’età e dalla perdita della giovinezza: loro non si stimano ma stimano la propria immagine. Quando leghiamo il nostro valore a qualcosa (sia anche l’aspetto del nostro corpo) finiremo privi di sicurezza e stabilità, sempre timorosi di perdere ciò che ci dà valore. In questo modo non siamo capaci di stimarci realmente, perché ci fermiamo a dati superficiali e, naturalmente, mutevoli e di passaggio.
Vivere in questo modo significa dare priorità a quella che Fromm definiva modalità dell’avere, ossia una visione in cui il nostro valore, la nostra importanza e sicurezza sono legati a “cose” esterne (o anche a persone): poniamo cioè fuori di noi il centro della nostra vita. Così facendo siamo in balia dell’eterna insicurezza e insoddisfazione che sono legate alla possibilità di perdere l’oggetto che ci conferisce valore.
Anche se l’apparenza, se l’aspetto fisico, sono gli idoli della nostra società e della nostra cultura, nulla ci impedisce di esentarci da questa assurda idolatria: la nostra stima deve basarsi su quello che siamo e non su quel che abbiamo (che sia la bellezza o la forza fisica poco cambia): solo quando iniziamo a stimare il nostro valore come persone cominciamo ad avere una sana autostima. La bellezza fisica non conta, conta quello che noi ne pensiamo. Liberarci dai canoni imposti (noi non siamo il nostro aspetto, ma esso è una parte di noi) è la via più sicura per rafforzare pensiero critico e autostima.
Ho avuto modo, di recente, di parlare con una donna che metteva in dubbio il fatto di essere intelligente. Mi aveva scritto di essere “limitata” e che questo non era solo il frutto di una sua sensazione, ma anche delle difficoltà che aveva a comprendere disposizioni a lavoro e degli scarsi risultati ottenuti ai tempi della scuola sebbene studiasse sodo. Mi è tornato in mente un seminario sull’autostima di qualche mese fa in cui una partecipante mi spiegava che se sei intelligente lo devono dire gli altri, soprattutto i tuoi professori o chi “ne sa più di te”. Una volta chiesi ad alcune persone di spiegarmi cosa intendessero loro con intelligenza, ed ecco alcune delle risposte:
“Essere intelligente vuol dire essere curioso, in senso lato, voler scoprire nuove cose, voler crescere e svilupparsi”
“Essere intelligente significa sapersi ben relazionare con gli altri”
“Una persona intelligente è capace di gestire il mondo attorno a se”
Puoi lasciarmi anche tu la tua opinione in proposito
Non ci sono coincidenze tra queste frasi, tra i significati che persone differenti danno della parola intelligente. Ancora oggi, e non solo per gioco, molti credono ai risultati dei test scientifici sull’intelligenza, risultati che, a mio avviso, dicono più della nostra capacità di rispondere a certi quiz che non della nostra intelligenza.
Molti uomini e donne considerate intelligenti, perché hanno ottenuto grandi riconoscimenti in campo culturale, scientifico o letterario, sono magari vittime di alcolismo o droga, così come lo sono persone considerate poco intelligenti. Anche l’affermazione “io sono più intelligente di te” credo sia sciocca.
Parlando di l’intelligenza (che il dizionario definisce capacità della mente umana di comprendere, pensare, giudicare, e quindi attribuire un conveniente significato ai vari momenti dell’esperienza), credo che ognuno di noi abbia lo stesso potenziale (generalmente) di chiunque altro. Conta molto se lo alleniamo, lo sviluppiamo e utilizziamo oppure se lo lasciamo atrofizzare. In più sono dell’opinione che spesso si considerino intelligenti coloro che la pensano come noi, e poco intelligenti coloro che invece sono in disaccordo con le nostre idee.
Nessuno dovrebbe sentirsi dire (o peggio ancora dirsi) che non è intelligente o lo è meno di altri: tutti siamo intelligenti, tutti possiamo sviluppare all’infinito le nostre capacità ed il nostro potenziale.
Perché guardare questo film? Attori sconosciuti ai più, trama non troppo inusuale, ritmo non eccitante. Perché parla di amore in modo differente, in modo nuovo. Parla di amore al di là della relazione di coppia, al di la del sesso o del possesso.
Quando i protagonisti riescono a comprendere il loro legame speciale ma differente, non unico ma poco compreso. Non è la solita storia d’amore romantico in cui i protagonisti si conoscono, si consumano di passione ed infine vivono felici e contenti, ma la storia in cui l’amore esce dagli schemi stereotipati e abbraccia il rapporto tra due persone, come esseri umani.
Per coloro che credono nell’Amore, per coloro che hanno capito che Amare è il motivo per cui siamo qui, per coloro che vogliono intraprendere (o continuare) un percorso di crescita personale, e per tutti gli altri, si tratta di un film da vedere, fino alla fine.
A nessuno piacere essere accusato di essere egoista: troviamo sia una critica sgradevole e non ci piace, salvo rare eccezioni, che gli altri pensino di noi che badiamo solo a noi stessi non curandoci degli altrui interessi e pensieri. In amore, poi, è qualcosa di intollerabile, per cui viene spesso utilizzata, l’accusa di essere egoisti, come una leva “motivazionale” per invogliare gli altri ad assecondarci, e quindi ad essere più “altruisti”.
Cosa vuol dire essere egoisti? Semplicemente, per così dire, mettere l’ego, il proprio, al centro degli interessi personali come aspetto principale. Significa pertanto pensare a se stessi e non agli altri, contrariamente a chi, orgoglioso di essere altruista, pensa agli altri prima che a se stesso.
La prima distinzione dovrebbe essere tra essere o sembrare, perché purtroppo sono tanti gli altruisti che agiscono così solo per averne un vanto, per essere apprezzati o per essere presi a modello, ed in questo dovrebbero essere considerati piuttosto egoisti. Ma in amore? In amore è egoista chi pensa a se stesso trascurando il partner, per dirla tutta, o l’amico, o la madre, insomma, la persona amata. Spesso per non essere egoista, e quindi per amare (l’amore è incompatibile con l’egoismo), dobbiamo essere quindi capaci di anteporre gli altri a noi stessi. Già, ma cosa comporta questo?
Purtroppo si confonde non tanto l’egoismo con l’amore, ma quest’ultimo col bisogno: i veri egoisti sono coloro che, accusando di egoismo gli altri, pretendono per se certi comportamenti o certe scelte. Sono egoista quando esigo che tu, poiché mi ami, faccia qualcosa per me. Sono egoista perché mi approfitto del tuo amore per avere quel che voglio.
“Egoista è pretendere che gli altri vivano la propria vita come vogliamo noi” diceva De Mello, e sono perfettamente in accordo con le sue parole: quando esigiamo dagli altri comportamenti, azioni, prove d’amore, scelte, siamo egoisti. Non è egoista chi sceglie se amarci o meno, ma chi impone qualcosa con la scusa dell’amore.
Abbiamo la pessima abitudine di etichettare come egoisti coloro che non vengono incontro ai nostri desideri, mentre siamo stranamente miopi nel non vedere il loro stesso comportamento in noi stessi: quando siamo noi a pensare al nostro interesse ci riteniamo in diritto di scegliere, abbiamo il dovere di pensare al nostro benessere, mentre gli altri, nella stessa situazione, sono egoisti e poco disponibili.
Il vero egoismo è quello che pretende, anche fosse l’amore, mentre l’amore è libertà e dove esiste la libertà non c’è egoismo. Tuttavia l’uomo veramente libero, quello che sa amare incondizionatamente, sembrerà facilmente egoista agli occhi di coloro che liberi non sono.
Una delle domande più difficili a cui rispondere oggi sembra essere quella di chi chiede come fare a conservare il proprio lavoro. Tantissimi sono oggi i contratti part-time, a progetto, a tempo determinato e molte sono le forme di lavoro che non prevedono una collaborazione definitiva. Molti sono preoccupati per l’instabilità della precarietà e si teme che nei prossimi anni sempre più persone non saranno in grado di mantenersi o poter vivere dignitosamente.
In realtà, sebbene le premesse siano poco incoraggianti, il segreto per mantenere un posto di lavoro a tempo indeterminato c’è: è capire che la certezza del lavoro, la certezza dello stipendio, non dipendono dal tipo di contratto che abbiamo firmato, ma dal modo in cui lavoriamo, dalla nostra passione, dal modo in cui ci mettiamo in gioco ogni giorno, dall’entusiasmo che sappiamo trasmettere e dalla voglia di vincere.
Ciò che fa realmente la differenza nel mondo del lavoro sono le nostre qualità personali e le nostre capacità: possiamo essere quel tipo di collaboratore che nessuno lascerebbe mai andare via, perché siamo unici nel nostro contributo e siamo quel tipo di persona che le aziende cercano. Se sappiamo lavorare in questo modo non ha importanza che contratto sigleremo, perché ovunque andremo saremo sempre ricercati e richiesti.
Le qualità che possono fare realmente la differenza sono tutte dentro di noi: la creatività, ad esempio, la tenacia e la determinazione, la capacità di lavorare in gruppo e relazionarci con gli altri, la nostra capacità di trovare soluzioni ai problemi, la voglia di imparare, l’ottimismo che portiamo, la voglia di metterci in gioco e al servizio degli altri.
Fondamentali sono poi la correttezza con le persone, la nostra onestà, la nostra sincerità, il rispetto per gli altri, la modestia, la capacità di collaborare e la voglia di comprendere chi ci sta vicino, l’integrità e il sincero interesse per gli altri e le loro esigenze. Quando queste qualità e queste abilità si coniugano con la fiducia in noi stessi allora il contratto a tempo indeterminato non ci serve, perché ne abbiamo in mano uno di gran lunga più importante firmato con noi stessi.
La sicurezza di avere sempre un’occupazione non dipende quindi che da noi stessi e dal modo in cui scegliamo di lavorare. La reale sicurezza, la vera ricchezza non sta nei fogli di carta che firmiamo ma nel nostro atteggiamento e nella nostra capacità di pensare e produrre, di imparare e creare, di condividere e contribuire. Quando diveniamo padroni di questo potenziale, che è già dentro di noi, allora il contratto è un dettaglio.
La fortuna, molti credono, è cieca, e soprattutto è qualcosa di molto casuale, non sempre legata ai meriti, qualcosa che sfugge totalmente al nostro controllo. In realtà sono certo che la fortuna, in buona parte, è una nostra scelta.
Per prima cosa dobbiamo comprendere che gli eventi della vita, quelli che viviamo e affrontiamo tutti quanti giorno dopo giorno, possono essere di due tipi: o sono nella nostra zona di influenza, ossia dipendono da noi, oppure ne sono fuori, e quindi noi non abbiamo controllo su di essi. La fortuna è fatta di eventi del primo e del secondo tipo, ma soprattutto del primo tipo: dipende dal nostro controllo!
Voglio spiegarmi bene: poniamo che un giovane faccia domanda per un posto di lavoro; l’azienda non lo richiama per mesi, ma lui continua studiare per saperne sempre di più. Un giorno viene contattato dall’azienda (che “fortuna” aver mandato il curriculum) e ottiene il posto grazie alla sua professionalità (che “fortuna” aver continuato a formarsi). Oppure un ragazzo si presenta all’esame (o gioca al milionario con Gerry Scotty) dopo aver studiato tanto e aver accresciuto la sua competenza: “fortunatamente” le domande sono facili (come tutte quelle a cui conosciamo la risposta!) e così è un ragazzo fortunato!
Torniamo seri: la fortuna, pensano molti, è avere le cose di cui abbiamo bisogno, mentre in realtà è capire che non abbiamo bisogno di niente. La fortuna, in realtà, è un atteggiamento: è preparazione, responsabilità, scelta personale di agire ed essere disposti a pagare il prezzo delle proprie azioni. Definiamo fortunati coloro a cui il “caso” ha concesso quel che volevano, mentre i veri fortunati sono coloro che hanno accettato con serenità quel che la vita ha dato loro.
Ovviamente esistono cose che sono totalmente fuori del nostro controllo, e le persone veramente fortunate sono quelle che riescono a trarne sempre un vantaggio e sanno accettare con calma e senza resistenze o capricci gli eventi. Una frase molto bella, che non saprei più a quale delle tante ipotetiche fonti, attribuire recita: “Signore, fammi accettare le cose che non posso cambiare e lottare per quelle che posso cambiare. Ma soprattutto concedimi la saggezza di distinguere le une dalle altre”.
Essere fortunati è una scelta che tutti possiamo fare, ma la maggior parte di noi sceglie, al contrario, la sfortuna e la commiserazione. Quando capiremo che la fortuna nella vita è vivere, ci renderemo conto che essere fortunati non ha nulla a che vedere con la realizzazione dei nostri desideri, ma con la consapevolezza che lo siamo tutti, fortunati, perché facciamo l’esperienza più grandiosa possibile: vivere.
Come coach esperto di crescita personale sono solito consigliare a tutti di iniziare un percorso individuale, anche del tutto autonomo, per sviluppare le proprie potenzialità e vivere una vita migliore. Lo faccio perché io stesso, per primo, ho scelto questa strada e credo sia giusto cercare di migliorarci giorno dopo giorno. Sono anche convinto che ci siano persone che non la pensano come me, e dato il mio interesse per le opinioni differenti dalle mie, ho voluto mettermi nei loro panni e individuare gli 8 motivi principali per non scegliere la crescita personale. Eccoli qui:
1°. Perché quando ti chiedono se sei felice rispondi di si senza neanche lasciar finire la domanda e mostrando un sorriso che trasmette a caratteri cubitali tutta la tua serenità interiore.
2°. Perché sei soddisfatto del tuo lavoro, contento dei tuoi colleghi, hai un rapporto perfetto con i tuoi superiori, raggiungi sempre i tuoi obiettivi e sei il trascinatore naturale di coloro che lavorano con te.
3°. Perché non ricordi cosa significhi avere una relazione difficile con qualcuno: sai sempre trovare la soluzione ad ogni conflitto, non litighi mai con nessuno ma trovi invece il modo di conciliare le liti altrui.
4°. Perché stai vivendo una vita piena d’amore, hai imparato ad amaretutti, sempre: sei generoso e disponibile, hai sempre le attenzioni giuste al momento giusto e sai dedicarti agli altri nel modo in cui loro lo desiderano.
5°. Perché sbagli poco ma quando lo fai sei prontissimo ad ammettere l’errore e a rimediare nel modo più opportuno perché nessuno ne sia mai danneggiato.
6°. Perché non perdi mai il controllo della situazione, non ti arrabbi o cadi in preda all’ansia praticamente mai, sei sempre equilibrato, vivi una vita emotivamente intensa ma non stressante.
7°. Perché sei sicuro di te, non hai timore del tuo valore, lo conosci e lo mostri senza paura, consapevole del potenziale che hai dentro di te.
8°. Perché sai dove andare, che strada intraprendere e che meta vuoi raggiungere, hai capito cosa ha veramente importanza nella vita per te e sei coerente con questo ogni giorno.
È evidente che non tutti abbiamo bisogno di crescere: alcuni devono impegnarsi ogni giorno (anche se chiamare la vita impegno non è appropriato), altri, come dimostra questo realistico elenco, non hanno più bisogno di ricercare la crescita personale.
Se per caso non ti ritrovi completamente negli 8 motivi che ho scritto sopra, allora comincia a riflettere sul fatto che potresti continuare (o iniziare) il tuo percorso di crescita personale: è una scelta che puoi fare in qualunque momento. Buon viaggio.
La consapevolezza, ho scoperto nella mia esperienza personale e professionale, è il punto di partenza per ogni percorso di crescita personale, perché essere consapevoli significa vedere, significa capire, significa comprendere realmente le cose, al di là di schemi, convinzioni, percezioni e filtri mentali.
Questo libro del padre gesuita rappresenta una miniera di riflessioni che hanno un filo conduttore: la consapevolezza come risveglio e percorso verso la vita. Vivere significa essere consapevoli. Al di là del nostro credo religioso, queste pagine sono cariche di spunti interessantissimi per iniziare ad osservare il mondo con occhi nuovi, per recidere i fili che ci legano come fossimo pupazzi in balia del resto del mondo.
È di libertà che parla De Mello, di amore, comprensione, consapevolezza, vita. Non ho condiviso tutto quello che ho trovato, ma posso garantire che da queste poche pagine nasceranno riflessioni importanti: il vero valore di questo libro sta proprio qui, nella capacità di spingere alla riflessione,e questo è l’inizio di un percorso di crescita personale.
Ho letto questo libro perché ispirato dal suo titolo e non sono rimasto deluso. Sebbene abbia avuto modo di leggere aspre critiche contro le teorie in esso contenute, sono persuaso che le idee di Fromm siano attualissime e corrette. Fromm parla di amare, più che di amore, parla di azioni e scelte, non di casualità e fortuna. L’amore è un’arte, secondo l’autore, che si impara.
In un passo sottolinea che l’amore è un’azione, un potere umano che può essere praticato solo in libertà, e non è conseguenza di una costrizione. È amore quello in cui uno non può vivere senza l’altro? In cui è costretto ad amare quella persona per essere felice? Fromm definisce infantile l’amore, molto comune, che viene elargito in cambio di quello ricevuto. Sono d’accordo.
Questo libro parla di amore come espressione della propria libertà, non come impulso incontrollato, non come malattia, non come bisogno: leggerlo può darci modo di cominciare a guardare all’amore in un modo realmente differente. Ho letto questo libro trovandovi un’incredibile somiglianza con le idee che andavo maturando personalmente sull’amore. Forse è finora il miglior libro sull’argomento che abbia letto.
“..le battaglie umane non arridono sempre All’uomo più forte o veloce. Prima o poi l’uomo vincente Sarà quello che ritiene di poter vincere”.
Il testo di Napoleon Hill è senza dubbio un libro da leggere per coloro che vogliono iniziare un percorso di crescita personale. Al di là di alcuni punti di vista che possono essere più o meno condivisi, nel testo le storie e i concetti esposti dall’autore rappresentano un’ottima base di stimoli e spunti interessantissimi per lo sviluppo del proprio potenziale.
All’interno del libro è presente per intero la poesia da cui ho tratto lo tralcio iniziale: si tratta di pochi versi in cui è condensato il potere infinito proprio di ogni essere umano, parole cariche di ispirazione per chi vuole accrescere la sua autostima a la fiducia in se stesso. La vera ricchezza personale.
Non nascondo che alcune teorie non le ho trovate applicabili alla mia esperienza, ma ogni volta che passo in rassegna le pagine in cerca di parti evidenziate ritrovo sempre qualche concetto stimolante e spesso perfetto per il momento.
È opinione diffusa, e raramente messa in dubbio, che l’adolescenza sia un periodo problematico carico di inevitabili disagi per coloro che l’attraversano. Ormai è talmente accettata questa visione che i giovani vivono questo periodo in maniera problematica, a volte, assecondando uno stereotipo sociale.
A guardar bene, tuttavia, il termine stesso di adolescenza è stato utilizzato in tempi recenti, mentre prima non veniva utilizzata questa classificazione per individuare questa fase della crescita di ognuno di noi.
Per esperienza personale posso comunque affermare che le cosiddette crisi adolescenziali e tutti i problemi legati a questa fase della nostra vita sono tutt’altro che ovvie o naturali. Per capirlo bene è importante dare un’occhiata da vicino.
L’adolescenza è la fase in cui una persona matura dal punto di vista fisico e mentale: abbandonata l’epoca in cui siamo bambini iniziamo un percorso di maturazione che culminerà nell’età adulta. Il periodo adolescenziale quindi, lungi dal dover essere necessariamente problematico, dovrebbe essere invece una fase di esperimenti, maturazione, crescita e sviluppo. La capacità di affrontare in modo efficace la vita sarà costruita in modo sostanziale propri in questi anni. Ma i problemi esistono e quindi da cosa nascono?
La caratteristica dell’adolescenza è il cambiamento che si vive in questa fase della propria vita: cambia il nostro corpo, le nostre idee si evolvono, ci confrontiamo con stimoli sociali nuovi e sempre più complessi, cominciamo ad assumerci la prime responsabilità, si trasforma sostanzialmente la nostra identità: sebbene il cambiamento ci accompagnerà per tutta la vita, durante l’adolescenza è amplificato.
Il problema nasce laddove manca la capacità di comprensione e ascolto: in una fase così nuova abbiamo bisogno di essere compresi, non giudicati e attaccati; apprezzati e valorizzati, dovremmo imparare come tirare fuori il potenziale e non come nasconderlo per paura di non essere adeguati o accettati dagli altri. Ai genitori spetta il compito di comprendere i propri figli e ascoltarli sinceramente.
L’adolescenza, come ogni altra fase della propria vita ma in modo accentuato, ha bisogno di modelli a cui ispirarsi: se i genitori non sanno essere un modello coerente e credibile, sano e positivo, i figli ne cercheranno uno altrove. Sono convinto che l’adolescenza, lungi dall’essere una fase problematica, sia un momento estremamente importante e creativo. Ma se manca la comprensione ed il rispetto della propria identità, qualsiasi giovane si troverà a viverla, e farla vivere a chi gli sta vicino, in modo traumatico e complicato.
Il vero problema dell’adolescenza, in realtà, è pensare che essa sia, e debba essere necessariamente, un problema.
Di Giulio Manfredonia, Italia/Spagna/Gran Bretagna 2004,
Una commedia simpatica, che parla di amore, ma lo fa in modo del tutto nuovo, e soprattutto parla di cambiamento. Un film (remake di una pellicola del 1993 che non ho ancora visto personalmente) in cui il protagonista, un bravissimo Albanese, impara giorno dopo giorno ad amare, come si potrebbe imparare qualsiasi cosa: facendolo. Da cinico e arrivista, pian piano, inizia a dedicarsi agli altri, prima per interesse, poi per piacere.
La bellezza del film la si coglie proprio nel notare come il suo cambiamento nel comportamento inizia per scelta, e appare del tutto innaturale, ma poco alla volta diviene un modo di essere, spontaneo, sincero e piacevole. La trasformazione non accade per caso, e non rimane confinata in pochi aspetti ma investe tutta la vita. Sinceramente: da vedere.
Quella che si vede oggi è una corsa al titolo di studio. Che si tratti di una laurea, di un master, una specialistica, un corso di perfezionamento non conta, l’importante è poter annoverare nel proprio curriculum formativo quanti più titoli possibili, sia perché gli altri ne potrebbero avere più di noi e quindi scavalcarci per un posto di lavoro, sia perché senza questi riconoscimenti, senza tutti questi percorsi di formazione, sarà difficile se non impossibile trovarne uno.
Molti credono, infatti, che se non si hanno titoli di un certo tipo, e la laurea è ormai considerata abbastanza scontata rispetto ai più “gettonati” master o corsi di specializzazione, non si avranno molte possibilità di trovare lavoro, perché si crede che sia il titolo posseduto ad aprirci le porte. La domanda quindi è: senza titoli si trova lavoro?
Dipende. Dando per scontato che il settore pubblico, con il suo sistema di concorsi a titoli, fa leva proprio sui riconoscimenti formativi per selezionare, è però vero che il settore privato ha un occhio rivolto ad aspetti ben più importanti: le capacità ed il talento individuale. È importante ricordare che esistono alcune mansioni che richiedono, per legge, un certo attestato o riconoscimento di professionalità, ma per tutti i lavori, e ve ne sono molti, in cui invece non è obbligatorio essere laureati oppure avere un master di primo o secondo livello, quello che fa realmente la differenza è la capacità individuale, il potenziale che ogni candidato ha e più apportare in azienda.
Non si tratta di teorie o frasi incoraggianti per quanti non hanno finito gli studi o non li hanno mai intrapresi: la verità è che alle aziende interessa soprattutto se saremo capaci di fare la differenza, di apportare un vantaggio con il nostro lavoro, se abbiamo l’atteggiamento giusto e il talento, la determinazione e la volontà di lavorare sodo ed imparare, mettendoci in gioco.
Avendo lavorato dall’altra parte della barricata, avendo selezionato personalmente i candidati per un posto di lavoro, posso dire con certezza che prima del titolo pesano la voglia di lavorare, la correttezza personale, la capacità di affrontare i problemi con la propria testa, in modo critico e creativo, la capacità di sapersi relazionare bene e saper lavorare in gruppo, la disponibilità e l’umiltà di imparare e crescere.
La logica è che le competenze, le capacità più tecniche necessarie a qualsiasi lavoro si possono sempre imparare, ma le qualità personali che contano è difficile insegnarle e quando ci si riesce questo richiede veramente molto tempo.
Avere un titolo che rappresenti realmente il bagaglio di crescita personale, di esperienza e conoscenza, di maturità dal punto di vista umano può essere utile, avere un pezzo di carta da sbandierare invece no. Se non abbiamo un titolo poco importa: il mondo del lavoro non è precluso a nessuno che abbia la volontà di tentare e la determinazione di avere successo.
Giusto o sbagliato che sia, se seguiamo un telegiornale e sentiamo parlare di politica lo scontro si concentra, tralasciate le vicende personali dei protagonisti, sul tema del lavoro: disoccupazione che cresce, crisi economica che non vuole passare, licenziamenti, scioperi, costi troppo alti per le imprese e così via, in una bagarre che non risparmia nessuno.
Il problema economico e lavorativo, senza ombra di dubbio, è forte e sentito, specialmente negli ultimi anni, e richiede una riflessione e una soluzione di lungo periodo, qualcosa di strutturale, ben oltre piccole manovre di contenimento o per soddisfare i critici del momento. Lasciando alla politica questi problemi, mi sono reso conto di come ognuno di noi possa fare, comunque, parecchio per migliorare la propria condizione lavorativa, cominciando dalla ricerca di lavoro.
In cerca di lavoro non c’è solo chi è disoccupato o inoccupato, ma anche coloro che non stanno bene dove si trovano, che non sono soddisfatti della loro attuale occupazione e vorrebbero dare una svolta alla propria vita; già, ma come fare?
Innanzi tutto è bene prestare attenzione a come cerchiamo lavoro: appare chiaro che non basta semplicemente inviare decine di curriculum oppure lasciare annunci su internet o sulle riviste di settore, ci vuole qualcosa di più.
Fermo restando che un curriculum vincente è un’arma spesso determinante, quello che di solito non viene fatto bene è il processo di ricerca in generale: ci si butta sul mercato in maniera caotica e confusa, con in mente solo la voglia di trovare lavoro al più presto, ma questo è un atteggiamento insufficiente per avere successo.
Per prima cosa l’ ideale è sapere che lavoro vogliamo: non basta voler lavorare, dobbiamo anche capire che cosa esattamente stiamo cercando. Partendo da passioni e interessi, esperienza e competenza, nonché capacità, saremo in grado di definire con chiarezza quale lavoro abbiamo come obiettivo, e dove trovarlo. Una volta che abbiamo un’idea precisa di che mansione o ruolo stiamo cercando, sarà molto più semplice individuare i contesti giusti in cui proporci.
A questo si aggiungerà una certa chiarezza di intenzioni che, per un datore di lavoro, è un elemento importante: tra un lavoratore che vuole lavorare, ed uno che vuole lavorare per me in un certo ruolo, sceglierò il secondo quasi sempre.
L’importanza di decidere con precisione cosa vogliamo è perciò fondamentale: il curriculum vitae sarà coerente con questo obiettivo, la lettera di presentazione spiegherà perché cerchiamo lavoro in quell’azienda e non in un’altra, perché vogliamo quella mansione e per quale ragione siamo convinti di esserne all’altezza.
Spesso, per non dire quasi sempre, ci si limita a spedire curriculum a tutti coloro che offrono lavoro e ad attendere di ricevere la tanto sospirata risposta positiva. La via più semplice e sicura per avere successo nella vita è stabilire cosa volgiamo ottenere, in modo chiaro e preciso.
L’influenza è la qualità principale per un leader. Si tratta di saper incidere nella vita delle altre persone, in senso ovviamente positivo. Il carisma altro non è che la capacità di esercitare la propria influenza sugli altri.
Influenza intesa come motivazione, ovvero la capacità di spingere le persone in una determinata direzione, dare loro un motivo che li sproni a comportarsi ad un certo modo, suscitare negli altri la nostra stessa volontà. Il presidente statunitense Dwight Eisenhower disse: “la leadership è l’arte di convincere qualcuno a fare qualcosa che tu vuoi perché lui vuole farlo”.
Influenzare non vuol dire, quindi, manipolare o costringere. Il leader è tale perché ha il carisma per influenzare coloro che lo seguono. Non c’è imposizione o coercizione, ma condivisione e collaborazione e questa dipende dall’influenza che il leader è in grado di esercitare.
Influenza come fiducia. Questa è una componente imprescindibile in un rapporto di leadership, poiché è impossibile riuscire ad influenzare persone che non si fidano di noi. Influenzare gli altri vuol dire, prima di tutto, ottenere la loro fiducia e la loro stima e non vi è modo migliore che dedicarsi a loro per raggiungere questo risultato. John C. Maxwell, esperto di leadership, disse: “il carisma è preoccuparsi degli altri, non di se stessi”.
L’influenza permette al leader di condividere le proprie idee, di suscitare negli altri, oltre alla sua stessa volontà, anche sentimenti ed emozioni che sono la spinta per realizzare i progetti. L’aspetto emotivo deve avere massima importanza agli occhi del leader, il quale deve saper influenzare e gestire questa variabile fondamentale. Stephen Covey, altro esperto di leadership, sostiene: “la leadership è comunicare agli altri il loro valore ed il loro potenziale in maniera tanto chiara da far si che li vedano in loro stessi”.
Un leader incapace di influenzare altre persone, come dice un vecchio proverbio, pensa di esserlo ma in realtà sta solo facendo una passeggiata. Se non volete trovarvi in questa spiacevole situazione incominciate a prestare attenzione alla vostra capacità di influenzare gli altri.
L’influenza non si esercita solo a parole o con grandi messaggi pubblicitari, con slogan o altisonanti eventi, l’influenza è qualcosa che facciamo quotidianamente, sono le nostre azioni, anche quelle sottovalutate o considerate banali: sono le cose “che facciamo” che influenzano gli altri.
Da qualche settimana il canale televisivo de La7 trasmette un programma davvero molto interessante dal titolo “il contratto” che si occupa di lavoro e occupazione, mettendo al centro della scena alcuni giovani in cerca di un posto e offrendo loro, al termine di una selezione prima ed uno stage aziendale poi, un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Naturalmente l’offerta è gestita con serietà e attenzione dato che, al di là delle esigenze televisive, le azienda che partecipano a ciascuna puntata assumeranno realmente, nel giro di pochi giorni, il vincitore della selezione. La prima puntata del programma mi ha dato lo spunto per riflettere su un tema che spesso è al centro dei miei discorsi: il contratto a tempo indeterminato.
Nel programma è stato messo in luce un aspetto che risaltava parecchio agli occhi: l’eccessiva attenzione al contratto piuttosto che al posto di lavoro offerto: non era tanto interessante il lavoro, la mansione, l’azienda o le opportunità professionali, quanto che si potesse firmare questo contratto a tempo indeterminato.
La precarietà lavorativa degli ultimi anni, assieme alla crisi e alle tante vicende che hanno visto tagli, anche pesanti, ai posti di lavoro in Italia e non solo, ha sicuramente favorito quest’atteggiamento, ma resta evidente un’eccessiva aspettativa verso questo tipo di contratto: quella di essere sicuri del posto di lavoro per tutta la vita.
Spesso si tirano fuori le motivazioni della possibilità di pensare al futuro, crearsi una famiglia, affrontare con serenità le situazioni imponderabili che ci aspettano. Tuttavia l’atteggiamento è quello sbagliato: nessuna azienda assume mai qualcuno che pensa più a sistemarsi a vita che al lavoro, nessuna azienda vuole collaboratori più legati al contratto che non alla propria passione. Quando il nostro interesse gira solo intorno alle certezza contrattuali o allo stipendio, dimentichiamo che per prima cosa dovremmo scegliere un lavoro che ci piace fare, dovremmo dedicarci a realizzare le nostre passioni.
Anche se sembrano belle parole poco concrete, non bisogna dimenticare che un’impresa ha molto più interesse ad assumere qualcuno che ama realmente il proprio lavoro, qualcuno che ci mette passione e interesse, a cui preme più ottenere buoni risultati che non avere la certezza del posto fisso. Per quanto molti continuino ad ignorare tutto questo, neanche noi assumeremmo una persona che vediamo poco interessata al lavoro e molto più ai nostri soldi.
Il segreto per trovare un buon lavoro e tenercelo stretto è quello di farne uno che ci piaccia e ci soddisfi. All’azienda che potrebbe assumerci interessa come lavoreremo e cosa sapremo portare di vantaggioso con la nostra unicità. Quando creiamo valore aggiunto lo stipendio sarà una conseguenza del nostro contributo. Il lavoro lo trova chi vuole lavorare, non chi vuole essere pagato.
Voglio essere provocatorio ed esagerare un concetto, per cui ti propongo di riflettere su questa domanda e rispondere, con calma e sincerità: se una persona che ami non potesse renderti felice, se non fosse in grado di farti sentire bene, cambierebbe qualcosa nei sentimenti che provi per lei?
Mi riferisco ad un amico, per esempio, piuttosto che ad un fratello o al proprio partner. In particolar modo in quest’ultimo caso, sarebbe indifferente, per continuare a passare la tua vita con lui, sapere che non ti può rendere felice e fare stare bene?
Spesso sento le persone convinte di aver trovato la persona giusta perché questa le rende felici, da quando la conoscono si sentono bene, sono entusiaste e allegre, la vita sorride nuovamente, hanno fiducia in se stesse, hanno speranza nel futuro, sanno che le cose andranno per il meglio e hanno capito cosa conta realmente nella vita. Sarà vero?
Temo che spesso iniziamo le relazioni con gli altri laddove pensiamo di averne un tornaconto diretto: è chiaro che nel rapportarci agli altri esiste sempre uno scambio, ma ora mi riferisco a relazionarci con loro per avere questo scambio. Iniziamo ad “amare” le persone se ci fanno stare bene, mentre allontaniamo quelle che non sono in grado di darci queste emozioni positive. Vorrei approfondire la cosa.
Stare bene con il proprio compagno di vita è fondamentale, nel senso che si tratta di una persona con cui abbiamo deciso di condividere la nostra esistenza, con cui percorreremo la stessa strada: ognuno di noi percorre la propria strada, alcune sono molto vicine e vanno nella stessa direzione, altre no. Con poche di queste la strada è unica: questa è la coppia. Non potremmo condividere tanto con qualcuno con cui stiamo male.
C’è però una differenza sottile: stai bene con la persona che ami, o l’ami perché ti fa stare bene? Nel primo caso significa che tu l’ami incondizionatamente, e da questo amore trai benessere; nel secondo l’ami a condizione che ti faccia stare bene, e pretendi questo benessere come condizione fondamentale per amare.
Se amiamo per riempire un buco interiore, colmare un vuoto o alleviare la solitudine, per provare piacere (in tutti i sensi) o per trarre sicurezza, non amiamo veramente. L’amore deve essere a prescindere, non come merce di baratto. Stare bene con qualcuno è conseguenza del nostro e del suo amore, reciproci ma incondizionati. Naturale poi che se l’altro non ha intenzione di amarci, semplicemente non vuole costruire la strada insieme.
Spesso cerchiamo un partner per stare bene e sentirci amati, ma se imparassimo a stare bene sempre e nonostante tutto, impareremmo ad amare e troveremmo “la persona giusta” con cui costruire la stessa strada.
Negli ultimi anni si è cominciato a parlare molto di resilienza: libri dedicati all’argomento, incontri e convegni che cercano di divulgarne la conoscenza e approfondire le tecniche per incrementarla nelle persone. La resilienza è un concetto che trova applicazione in svariati settori della conoscenza, dall’ingegneria all’informatica, dalla biologia alla psicologia. Sebbene ogni disciplina concepisca la resilienza con sfumature differenti, essa è la capacità di adattamento e resistenza alle pressioni esterne di un soggetto, oppure un oggetto.
In psicologia – ed è qui che la mettiamo in correlazione con l’autostima – essa rappresenta la capacità di una persona nel fronteggiare le situazioni avverse, i contraccolpi psicologici che subisce, senza venirne danneggiata o schiacciata. In sostanza è la capacità di reagire ai sinistri, di rimettersi in corsa dopo una caduta, di rialzarsi nonostante le difficoltà incontrate. Ecco perché se ne parla sempre più spesso: essa assurge a caratteristica fondamentale per reagire a situazioni di stress e disagio psicologico a cui tutti, più o meno, possiamo essere esposti: si tratta quindi dell’indicatore della nostra capacità di reazione costruttiva agli eventi negativi della vita.
Come si relaziona dunque con l’autostima? Partendo dal presupposto che l’autostima è l’autonoma valutazione del proprio valore come persone, la resilienza rappresenta, per così dire, l’aspetto di quell’autostima legato alla nostra convinzione di poter fronteggiare le difficoltà. Parlando di autostima, parliamo di convinzioni circa quello che siamo e non siamo capaci di fare, soprattutto la convinzione di saper fronteggiare qualsiasi sfida la vita ci presenterà: una buona autostima comporta una buona sicurezza di riuscire in questo. In pratica, la resilienza, come qualità reattiva, altro non è che una forte dose di sicurezza personale dalla quale attingiamo il necessario per fronteggiare ogni situazione e la forza per reagire a quelle più negative.
Poiché l’autostima è una valutazione di valore in senso generale, comprendente tutta la nostra persona, non può che essere un’elaborazione complessa, ovverosia composta di molti elementi, tra cui la resilienza. Così come, infatti, una persona sicura di sé avrà facilità ad affrontare con fiducia un rovescio della sorte, una persona con questa capacità di reazione avrà una buona autostima, cioè una buona sicurezza interiore.
Tra i consigli più diffusi in fatto di resilienza si trovano tutte idee che spingono a migliorare la nostra capacità di osservare la realtà in modo critico, ristrutturare gli eventi sfavorevoli, aumentare la tolleranza alla frustrazione. Consigli che andrebbero benissimo anche se l’obiettivo fosse quello di incrementare la nostra autostima. Anche se pochi legano le due cose, sono persuaso che la resilienza sia una caratteristica costitutiva dell’autostima, una sua componente interna. Dirò di più: una volta sviluppata un’autentica e forte autostima, lavorare sulla resilienza risulterà superfluo, perché sarà un “effetto collaterale” della maggiore sicurezza in noi stessi.
Davide era a capo di un progetto di salvataggio inviato durante una piena del fiume: molte case erano state sfollate, tantissime persone erano però ancora intrappolate sui tetti delle loro abitazioni, ormai invase completamente dal fiume trasformatosi in un lago del colore del fango. La squadra di salvataggio aveva il compito di recuperare i superstiti dai tetti delle case ancora visibili, ma l’operazione era molto complessa a causa della pioggia continua e dell’impeto delle acque, che spesso mettevano in difficoltà i gommoni di salvataggio.
In una delle ultime operazioni, Davide si trovò in una situazione in cui dovette far ricorso ad una delle qualità più importanti per un leader: la tenacia. La case su cui intervenire si trovava sul fianco di una collina, in una posizione che aveva originato una sorta di cascata nella quale le acque, divenute vorticose, impedivano l’avvicinamento. Nonostante i primi tentativi, sembrava impossibile intervenire direttamente dal basso, ma l’elicottero di salvataggio avrebbe impiegato ancora molti minuti prima di essere disponibile, e le condizioni della casa lasciavano presagire il peggio.
Consapevole della situazione, Davide non si perse d’animo, coinvolse tutta la squadra ideando ogni possibile soluzione e motivò tutti a non demordere, convinto che il salvataggio, sebbene estremamente complicato, fosse possibile. Decisero così di costruire una sorta di cavo di salvataggio che tenesse il gommone al sicuro durante la manovra, evitandogli di essere risucchiato nelle acque vorticose sottostanti: sebbene la cosa sembrava poco fattibile, tutti i membri della squadra lavorarono all’unisono per riuscire e portarono così in salvo la famiglia rimasta bloccata sul tetto della casa.
Sebbene non ci si imbatta sempre i situazioni complesse e pericolose come quella che Davide e la sua squadra hanno dovuto affrontare, la tenacia, ossia la capacità di non arrendersi di fronte a difficoltà, ma di perseverare, con intelligenza ma con determinazione, rappresenta uno strumento determinante per un leader. La tenacia ha un impatto positivo sul gruppo, funge da sprone e stimolo, soprattutto se veicolata da un fine comune e condiviso.
Per un leader è importantissimo mostrare non solo integrità verso gli obiettivi delle persone che guida, ma anche la giusta tenacia nel perseguirli, nonostante difficoltà e ostacoli, malgrado imprevisti e contrattempi. Allenare la propria tenacia significa iniziare ad abituarsi sin dalle piccole cose a non mollare facilmente di fronte a imprevisti e avversità: si tratta di portare sempre a termine un lavoro iniziato, mantenere un impegno anche quando diviene difficili, persistere nel proprio obiettivo anche se sarebbe più comodo rinunciare invece che lavorare sodo.
I successi sono sempre conseguenza di una forte determinazione, e per questo la tenacia è un fattore determinante per un leader, che mostra a coloro che tale lo ritengono di essere quel tipo di persona capace di lottare malgrado le difficoltà.
E’ San Valentino e, come ogni anno, sin dal mese di gennaio, sembra che questa festa sia la ricorrenza giusta per uno scambio di doni, il momento ideale per “ricordarci” di fare qualche regalo alla persona più importante della nostra vita. Ogni anno osservo le persone ed i loro comportamenti quando è il momento di “dover” fare un regalo.
Il punto su cui mi soffermo è che spesso – se non sempre – i regali sono vissuti come un dovere, una sorta di obbligo, una consuetudine a cui, volenti o nolenti, non possiamo sottrarci. Ovviamente potrei estendere il discorso a eventi come i compleanni o la festa della mamma o il Natale, ma il succo resta lo stesso: ci sono periodi e ricorrenze in cui “è necessario” fare un regalo. Per quale motivo?
Sicuramente la convenzione sociale gioca un ruolo determinante. Non fare un regalo è considerata una forma di egoismo e indifferenza nei confronti degli altri, ed essendo inevitabile o quasi riceverne, si finisce per sentirsi in debito o fare “cattive” figure con le altre persone. Così vedo spesso uomini e donna impegnati nelle compere, trasformando il significato della festa, che di per sé non dovrebbe essere commerciale, in qualcosa di molto materiale.
La pubblicità e l’industria del commercio, dal canto loro, fanno la loro parte attraverso immagini e colori luccicanti, campagne televisive bombardanti, rafforzando il messaggio che amare qualcuno significa anche, se non soprattutto, fare qualche regalo. Le persone si aspettano di riceverne e ci resterebbero male se noi non facessimo un regalo. Possiamo essere tanto egoisti?
Riflettendoci mi chiedo se sia veramente una forma di altruismo e bontà, un’espressione di amore e generosità adeguarsi a questa routine periodica, oppure se sia altro. Prima di tutto penso al fatto che se non ci fosse una festa in cui regalare qualcosa alle persone care, in molti non farebbero mai un gesto del genere durante l’anno, e lungi dall’essere un merito della festa di turno, è un demerito del nostro comportamento con gli altri.
Se il regalo d’amore è una manifestazione del mio interesse e della mia generosità, dovrebbe essere un tratto del mio modo ci vivere una relazione, che sia amicizia, amore o altro, e non un qualcosa che “ricordo” di fare solo in certi periodi.
Se voglio fare un regalo a qualcuno a cui tengo, perché mai dovrei attendere le feste da calendario? Per quale motivo non posso farlo in un giorno qualsiasi? Se lo facessi suonerebbe strano, se non lo facessi in una festa, decisamente sbagliato!
Amare, vuol dire dare, senza pretesa (neanche di un regalo a San Valentino!), e questo significa prestare attenzione e cura, dedicare tempo e interesse: un regalo è un atto d’amore solo se scelgo di volerlo fare, non se mi sento “costretto” per quel che gli altri, chiunque essi siano, penseranno e perché quello è il momento “giusto”.
Un regalo forzato nasce dal bisogno di adeguarci agli altri e dalla paura di essere giudicati, e né l’uno né l’altra hanno a che vedere con l’amore.
Essere consapevoli vuol dire essere presenti e vivere pienamente la propria vita, significa godere di ogni momento in modo totale. Moltissime religioni e filosofie spingono verso la via che porta alla consapevolezza, ed in molti, oggi, organizzano corsi e seminari allo scopo di guidare le persone su questa strada.
Sono ceto che non si arrivi ad essere consapevoli in via definitiva, poiché la consapevolezza stessa, come la vita, è un continuo divenir e fluire. Ciò a cui possiamo e dobbiamo aspirare è vivere quanto meglio possiamo in modo consapevole.
Ho già parlato di cosa voglia dire vivere consapevolmente, adesso mi piacerebbe condividere qualche idea, per nulla esaustiva, per iniziare il viaggio.
Il primo passo è non rimanere in superficie ma scoprire noi stessi: capire perché facciamo quel che facciamo, cosa ci spinge a certe scelte, a certe parole, da dove nascono certe idee, che significato hanno certe convinzioni, da cosa scaturiscono le nostre emozioni e reazioni.
Guardarsi a fondo e comprenderci realmente richiede anche il coraggio di accettare cose che magari non vorremmo vedere (e che di solito nascondiamo) e vivere in accordo con le nostre scoperte interiori, anche se questo comporta una sforzo maggiore.
Aprire la mente è fondamentale per divenire consapevoli, e questo significa superare pregiudizi e credenze limitanti, interessarci a ciò che appare differente, ricercare ciò che non conosciamo, leggere, riflettere.
Fondamentale è smettere di giudicare. Sia che si tratti di noi stessi che degli altri dobbiamo imparare a sospendere ogni giudizio. Il giudizio porta sempre una definizione di giusto o sbagliato, essere consapevoli impone capire che a volte non siamo in grado (né in diritto) di stabilirlo noi. Imparare ad astenerci dal giudicare ci aiuta a non identificarci con cose o idee e osservare tutto con più chiarezza.
Dobbiamo dedicare tempo a coltivare la solitudine, tempo necessario per interrogarci, per comprenderci, per eliminare la frenesia quotidiana, per aprire la mente, riflettere. Trovare questo tempo è fondamentale per imparare a vivere consapevolmente.
Ricapitolando:
1.Non fermiamoci in superfici ma impariamo a conoscerci 2.Alleniamo il coraggio per vivere consapevolmente 3.Apriamo la mente 4.Abbandoniamo l’abitudine a giudicare 5.Passiamo del tempo da soli
Una delle principali cause della fine di una relazione sentimentale, ma spesso anche di rapporti di amicizia o fratellanza, è il tradimento. Difficile perdonare chi, tradendo la nostra fiducia, ci ha fatto del male.
Ciò che maggiormente mi preoccupa dell’argomento è però la facilità con la quale si tradisce: ormai si suole dire che la nostra società, gli stimoli, le tentazioni e le pressioni sono la causa reale di questi comportamenti, e che spesso non sia una responsabilità del traditore quanto delle situazioni che lo vedono vittima.
Sento dire che in certe circostanza sia naturale tradire, oppure che il tradimento “fisico” e non emotivo non sia un vero e proprio tradimento, quasi a dire: “vado a letto con un’altra persona, ma in fondo amo te!”.
Già, spesso tradire viene visto come qualcosa che non ha nulla a che vedere con l’amore, come se fosse un bisogno di varietà, un’esigenza propria della nostra natura animale, qualcosa di perdonabile per via delle nostre debolezze.
Ma si può tradire e amare? In un altro articolo ho spiegato cosa vuol dire amare, e partendo da questo concetto sono convinto che il tradimento, quale mancanza di rispetto verso l’altro, nonché come atto di puro egoismo, non ha nulla a che vedere con l’amore.
Tradire nasce sempre da un bisogno personale, magari si tratterà di un istinto sessuale, oppure della mancanza di attenzione del partner, o ancora dei problemi interni alla coppia. Qualunque sia la motivazione di fondo, e ve ne sarà sempre una, si tratta di un comportamento dettato della volontà di soddisfare un proprio bisogno.
Poiché l’amore è donare, cioè dare incondizionatamente e non effettuare un semplice scambio di soddisfazioni reciproche, il tradimento dimostra la mancanza della maturità emotiva e l’assenza della volontà di amare. Poiché amare è una scelta, tradire è la scelta di non amare.
Amare vuol dire, tra l’altro, rispettare, accettare l’altro, donare se stessi alla persona amata senza chiedere né pretendere nulla in cambio. Il tradimento nasce invece dalla mancanza di tutto ciò, dall’egoismo che è generato dal bisogno e non ha nulla a che vedere con l’amore.
Qualsiasi tradimento si può dimenticare, se sappiamo cosa vuol dire perdonare, ma ogni tradimento porta con se il dubbio che la persona sia veramente intenzionata ad amare. Scegliere di amare vuol dire anche non fare del male all’altro, non mentire, comportarsi come vorremmo che l’altro si comportasse con noi (senza pretenderlo), e nessuno vorrebbe essere tradito.
Chi tradisce lo fa perché ancora non ha scelto di amare veramente: chi ha scelto di amare non tradisce.
Se esiste qualcosa a scuola di veramente utile, che tutti dovremmo studiare e che gli insegnanti dovrebbero spiegare a tutti, sicuramente sarebbe la capacità di imparare. Mi riferisco all’abilità che ognuno di noi potrebbe sviluppare nell’imparare ad apprendere.
Mentre di solito si insegna qualcosa di specifico, si forniscono contenuti e concetti, quello che spesso manca è l’insegnamento di come possiamo imparare da noi a fare qualsiasi cosa (con le dovute eccezioni), ossia imparare i meccanismi e le tecniche per diventare ottimi apprendisti.
Dato che questo non si fa, ho pensato bene di dare qualche suggerimento per prendere un buon voto in questa fondamentale materia.
Per prima cosa dobbiamo sempre cercare di capire il perché: porci sempre una domanda in più sul motivo reale del perché una cosa avviene in un certo modo. Non limitiamoci ad osservare le reazioni delle persone oppure a conoscere le regole di un gioco, ma chiediamoci “perché proprio quelle?”
Altrettanto fondamentale chiederci “come?” di fronte alle situazioni in cui ci troviamo. Il come ci aiuta a concentrarci sul modo di migliorare un’attività, di perfezionare un comportamento o ottimizzare un lavoro. Chiedersi “come posso risparmiare tempo a lavoro?” oppure “come posso memorizzare meglio questa materia?” ci permette di migliorare continuamente.
Elemento fondamentale per imparare è provare. L’esperienza è sempre considerata una chiave importante in ogni attività, ma la cosa che conta e come la utilizziamo. Innanzi tutto è bene tentare, agire, fare, anche se si tratta di cosa mai fatte o attività in settori sconosciuti. Agendo è fondamentale che ci poniamo le domande giuste per fare della pratica una maestra preziosa. Non basta lavorare per anni in un settore per diventare ottimi professionisti: è necessario capire il perché di quello che facciamo e studiamo, un modo per migliorare continuamente.
Un altro elemento assai utile è quello di imparare a comprendere noi stessi quando siamo impegnati in qualcosa. Saper prevedere le nostre difficoltà, comprendere i nostri punti di forza, scoprire le reali motivazioni (a volte inconsce) del nostro modo di reagire agli eventi ci aiuta a prendere il controllo su noi stessi. Questa è una chiave determinante in ogni processo di apprendimento.
Ricapitolando:
1.Scopriamo sempre perché le cose stanno in un certo modo 2.Scopriamo come possiamo migliorarle 3.Facciamo pratica, agiamo senza starcene con le mani in mano 4.Impariamo a conoscere noi stessi
Leggendo i giornali di circa un mese fa, o semplicemente sbirciando tra le notizie on-line o ascoltando qualche notiziario televisivo, non è passata certo inosservata la polemica scoppiata attorno alle esternazioni del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in relazione agli omosessuali. Non mi interessa entrare nel merito della polemica, quanto piuttosto osservare come l’indignazione generale sia in grado di convivere pacificamente con una strisciante “diffidenza”nei confronti delle persone che, per un motivo o per un altro, vengono considerate diverse.
L’orientamento sessuale, sebbene al centro dei dibattiti recenti e di varie iniziative sociali, è solo una delle forme di “diversità” con le quali oggi dobbiamo fare i conti. Chi è diverso?
Per parlare di “diverso” dovremmo almeno partire da ciò che invece non lo è, ciò che viene generalmente definito “normale”: innanzi tutto dovremmo renderci conto che essere normali vuol dire semplicemente stare nella norma, ovvero aderire al comportamento più comune, non certo, per questo, naturale, “giusto” o lecito. Se ad esempio vivessimo in una società in cui vige la pena di morte, tale condanna sarebbe “normale”, e diverso sarebbe considerato chi invece ne vorrebbe l’abolizione. Spesso invece finiamo per fraintendere ciò che è normale come qualcosa di corretto, giusto, “naturale”, relazionandoci con le persone e le situazioni che si discostano da questa normalità in modo diffidente e a volte anche aggressivo.
Il bisogno di sentirci sicuri è uno dei punti fondamentali per un essere umano, e già Maslow aveva elaborato una teoria dei bisogni, negli anni Settanta, in cui poneva alla base delle necessità umane il senso di sicurezza e protezione. Ciò che è diverso, coloro che escono fuori dalla norma, rappresenta un’incognita, è sconosciuto e, quindi, potenzialmente pericoloso. Il nostro bisogno di sicurezza ci spinge a diffidare e ci porta anche a temere ciò che non conosciamo e comprendiamo. Questo significa che la paura del “diverso” è un istinto naturale dell’uomo? Non credo proprio: significa invece che è una reazione all’ignoranza che abbiamo di fronte a ciò che esce dagli schemi consolidati, alla routine, al comportamento delle maggioranze.
Parlare di omofobia, piuttosto che di intolleranza religiosa o culturale, significa porre l’accento sulle paure che la gente conserva nei confronti di quanto non conosce. L’ignoranza è ciò che alimenta la paura: temiamo le cose che non consociamo perché potrebbero farci soffrire.
Se vogliamo cambiare in positivo, se vogliamo migliorare noi stessi e anche la società che ci circonda, dobbiamo iniziare con il cercare di capire e comprendere tutte le sue sfumature, tutte le particolarità; imparando a conoscere, e rispettare, verrà meno la paura. Madame Curie diceva “non c’è niente di cui aver paura, c’è solo da capire”, e sono convinto che se iniziassimo a guardare alle novità, qualsiasi esse siano, con un’apertura mentale volta a comprendere e accettare, potremo costruire una società migliore e pacifica per tutti noi.
“La felicità” , recita una frase letta in un libro, “non è avere ciò che vorremmo, ma godere di quel che già ora abbiamo”. In realtà non saremo mai felici se non lo siamo adesso. Non saremo mai felici quando avremo qualcosa che desideriamo se non lo siamo ora con quello che abbiamo.
Se alcuni pensano che questo voglia dire accontentarsi nel senso di non aspirare a crescere si sbagliano. Sto dicendo di imparare ad apprezzare ciò che ora abbiamo, e non aspettare quel che verrà come salvatore della nostra vita e portatore di felicità.
La vita è ora, è adesso, impariamo a goderne!
Innanzi tutto fate un bell’elenco delle cose positive che avete attualmente. Deve essere ampio il più possibile e inserite tutto quello che possedete di materiale per il quale siete grati. Può essere la vecchia macchina che continua a funzionare, il mobile che avete in camera, la vostra casa, che per quanto non sia una reggia vi ripara e protegge.
Fate ora un’altra lista con le cose più importanti, quelle che non possono essere comprate, come dice una nota pubblicità, quelle che hanno realmente valore nella vostra vita. Può essere la gente che amate e vi vuole bene, la vostra intelligenza, la vostra creatività, la fantasia, la salute( per quanto forse state male siete ancora vivi, è questo è un ottimo punto di partenza).
Imparate a non dare per scontato quel che oggi avete. Osservate il computer e rendetevi conto che i vostri nonni non lo avevano, aprite il rubinetto nel bagno e riflettete su come in molte case l’acqua non arriva ancora oggi.
Guardate il mondo con occhi nuovi. Prendete due foglie e osservatele: si somigliano ma non sono uguali, trovate le differenze. Guardate due alberi nella strada: sono simili ma allo stesso tempo differenti. Ricominciate ad osservare con attenzione a godere di quello che ci circonda. La noia non sta nella realtà ma nella nostra maniera di guardarla.
Ricapitolando:
1.Fate un elenco dei vostri oggetti per i quali siete grati 2.Fate un elenco di “ciò che avete” per cui siete grati 3.Non date nulla per scontato 4.Trovate le differenze, osservate con attenzione 5.Imparate a guardare il mondo con curiosità
Ho scritto in un articolo precedente sulla disoccupazione, di come anche in contesti che sembrano senza opportunità come la Calabria, in realtà esistano occasioni lavorative anche molto interessanti per coloro che le vogliono sfruttare. In teoria la cosa sembra fattibile, ma in pratica come comportarsi?
Per prima cosa dobbiamo avere in mente un’idea chiara di dove vogliamo arrivare: stabilire che tipo di lavoro cerchiamo, qualsiasi sono le competenze che possediamo, le passioni e le inclinazioni che ci spingono ad agire è determinante per fare una scelta consapevole. Non posso certo ignorare che a volte le situazioni in cui ci si trova impediscano una analisi lucida del genere: bisogna mantenere la famiglia, e le passioni o il lavoro ideale non troverebbero posto in questi casi. Ma non sono d’accordo.
Anche se la situazione ci imponesse di accontentarci del primo lavoro che capita, nulla vieta di continuare a cercare ciò che invece desideriamo fare, invece che restare impantanati in una situazione che non ci gratifica e ci fa vivere poco serenamente. Anche se facciamo un lavoro che non amiamo abbiamo sempre due scelte: imparare ad amarlo, oppure pensare ad alternative che potranno sostituire quello attuale quando saremo in condizione di fare il passo.
Avere questa chiarezza di obiettivi ci permette di guardare ai lavori meno piacevoli come tappe di avvicinamento: anche se non è quello che sogniamo ci permette di coltivare il sogno e realizzarlo, ci potrà fornire esperienza e conoscenze per realizzare il sogno stesso, senza per questo chiuderlo in un cassetto.
Questa chiarezza è anche fondamentale per preparare un curriculum efficace, per potere stabilire a quali aziende mandare la nostra proposta, che settore ci interessa o quali sarebbero utili per la nostra crescita. Possiamo stabilire come pianificare il nostro percorso e avremo il materiale adatto per scrivere lettere di presentazione efficaci che ci aiutino a trasformare le occasioni in risultati concreti.
Ho visto molte persone rimaste a lamentarsi di non avere un lavoro, persone capaci di rifiutarne alcuni perché richiedevano orari scomodi (per esempio il sabato occupato), oppure comportavano una vita pendolare, o ancora erano “umilianti” o troppo faticosi, o semplicemente non retribuiti abbastanza (anche se il nulla della disoccupazione non porta molto più denaro in tasca…).
Le possibilità ci sono; l’atteggiamento costruttivo, la voglia di lavorare e costruire il proprio futuro, lo spirito di sacrificio e la determinazione da perseguire i propri sogni, malgrado le probabili difficoltà, dipendono da noi. Se mettiamo insieme queste cose possiamo cambiare molto, anche in piccolo. D’altronde tutti lo sanno che il mare è fatto di gocce, solo che se ne dimenticano guardando le onde.
Se prendiamo il mondo delle aziende si parla oggi molto di valori, si scrivono fiumi di parole per definire i pilastri della cultura aziendale, si fanno incontri, formazioni, riunioni per condividere questi principi che poi, spesso e purtroppo, rimangono scritti su di un bel poster all’interno dell’ufficio. E se ne sente tanto parlare a livello sociale, quando si rinfaccia alle nuove generazioni di “non avere” più valori.
Ma cosa sono? Con tutto il parlare che se ne fa, qualcuno evita anche di nominarli, preferisce usare parole o espressioni differenti, oppure si finisce con il considerarli qualcosa di obsoleto – legato magari alla morale religiosa – o semplicemente come un vincolo ed un’imposizione da subire.
Niente di più sbagliato. I valori sono ciò che per noi ha maggior peso, o meglio, rappresentano i parametri attraverso i quali giudichiamo il bene ed il male, ciò che per noi è giusto e ciò che invece riteniamo sbagliato. Rappresentano i nostri punti di riferimento.
Possibile che oggi si stiano realmente perdendo? Assolutamente no, ma è evidente che stanno mutando. I valori sono estremamente soggettivi, nel senso che essi rappresentano le priorità personali di una persona e possono essere molto diversi per ciascuno di noi.
I valori si formano per tutto l’arco della nostra giovinezza, li assorbiamo dai genitori, dalla scuola, dalla società, e spesso ci ritroviamo ad avere punti di riferimento che non ci appartengono, che abbiamo acquisito senza critica e che ora, volenti o dolenti, fungono da coordinate per il nostro viaggio.
È fondamentale per tutti noi capire chiaramente quali siano i nostri valori, definire con chiarezza ciò che ci guida, cosa per noi ha la massima importanza, ma non basta stabilire quali sono per noi le cose più importanti, ma è fondamentale anche sapere quale, tra tutti i nostri valori, per noi è il più importante. Se non sappiamo quale sia la nostra gerarchia, potremmo fare scelte incoerenti con i nostri valori, e questo ci porterà insoddisfazione e frustrazione, quindi infelicità.
I nostri valori rappresentano le linee e i guardrail della nostra strada, ci permettono di mantenere la carreggiata ed evitare di “deragliare”. Se vogliamo raggiungere le nostre mete, realizzare il senso della nostra vita, allora è necessario avere punti di riferimento che ci portino in quella direzione.
Divenire consapevoli di quali siano i nostri valori è un primo, importante, passo in questa direzione, ma a questo punto dovremo porci una domanda: i punti di riferimento che ho compreso di avere, mi stanno portando nella direzione che ho scelto?
Le crociate è un film che racconta di un cavaliere che cerca, in Terra Santa, nella difesa di Gerusalemme dagli “infedeli” arabi, una via per se stesso, un modo di comprendere il senso del suo “viaggio”. Tra combattimenti a tratti cruenti e scene di riflessione, il film è avvincente e portatore di un messaggio di libertà individuale in un epoca dove questa non era neanche lontanamente paragonabile a quella (presunta) di cui oggi godiamo.
Una sequenza particolarmente significativa vede coinvolto il protagonista a colloquio con il re, il quale gli spiega, durante una partita a scacchi, l’importanza di agire secondo coscienza: «quando sarai di fronte a Dio – gli spiega – non potrai dire “ho agito così perché me lo hanno detto loro”, oppure “mi sono trovato in quella situazione e non ho avuto scelta”». Siamo noi i soli e unici responsabili , sempre e comunque, delle nostre azioni e delle nostre scelte. Qualsiasi influenza subiamo, per quanto grande, non deciderà mai il nostro comportamento: saremo sempre noi ad avere l’ultima parola.
Per coloro che amano il genere è un film da guardare assolutamente; per tutti coloro che vogliono spunti e riflessioni per la propria consapevolezza o crescita personale, un film da vedere.
Il ruolo del leader è quello di guidare coloro che lo seguono verso una direzione che sia vantaggiosa per tutti, condivisa, una meta che rappresenti una fonte di stimolo per ogni persona coinvolta nel viaggio. Il suo compito, dunque, è quello di tracciare la rotta e mettere tutti nella condizione di viaggiare nel miglior modo possibile, poiché agli occhi del vero leader il viaggio conta tanto quanto la meta.
Per essere leader dobbiamo tenere a mente l’importanza dell’esempio: sappiamo che le persone imparano molto più dal vedere qualcosa piuttosto che dal solo sentirla spiegare, il che vuol dire che il leader non può limitarsi solamente a dare istruzioni, ma deve egli stesso, per primo, mettere in pratica quanto dice. Questo si riallaccia alla caratteristica dell’integrità di un leader di cui ho parlato, e che rappresenta un punto fondamentale se non imprescindibile per realizzare una buona leadership.
Fare da esempio comporta che il leader viva le cose che insegna ovvero che sia il primo a dedicare ore in più di lavoro quando è necessario, il primo ad assumersi le sue responsabilità, il primo a dare la sua disponibilità per aiutare chi è in difficoltà. Il leader chiede di fare un passo più a chi gli sta attorno dopo che lui ne ha già fatti decine in più, un leader può pretendere il massimo da coloro che lo seguono quando lui stesso sta dando più di quanto a sua volta chiede.
Non conta quello che il leader dice o spiega, conta quello che lui stesso fa: ricordo di aver lavorato per un direttore che invitava tutti noi collaboratori a creare un clima piacevole e produttivo, ma era un tipo che facilmente perdeva pazienza e serenità specialmente verso i propri collaboratori, mostrando un comportamento contrario alle belle parole, creando un clima tutt’altro che piacevole.
L’importanza di dare il buon esempio è legata anche ad un fattore di motivazione e coinvolgimento: siamo portati spontaneamente a dare molto a coloro che sentiamo danno molto a noi. Quando lavoriamo con persone che dedicano impegno e attenzione nei nostri confronti, siamo propensi a ricambiare con altrettanta dedizione, non perché “si deve fare”, ma piuttosto perché sentiamo che è giusto così. Un leader che fa sacrifici per le persone che lo seguono e per tutto il gruppo avrà sempre persone pronte a dare il massimo per raggiungere gli obiettivi comuni.
Non basta ovviamente dare l’esempio, bisogna che si tratti di un buon esempio, perché così come la gente si impegna maggiormente laddove il leader è il primo a fare un metro di più, altrettanto rapidamente leader svogliati o poco rispettosi di regole e persone fomenteranno comportamenti simili anche in coloro che li seguono: comunque si comporti al leader si guarderà sempre per sapere cosa si può e non si può fare.
Un leader definisce la strada da seguire, ed è sempre il primo a partire, mostra agli altri con il suo comportamento cosa si aspetta da tutti: il leader fa da esempio.
Più leggo libri che parlano di relazioni di coppia e di amore, più parlo di questi argomenti con le persone, più ascolto commenti o leggo post pubblicati su siti, più mi rendo conto di come siamo soliti vivere l’amore come una ricerca: siamo occupati a trovare quello che stiamo cercando, magari la persona giusta, e perdiamo di vista qualcosa di fondamentale.
A sentire molti di coloro che si occupano professionalmente di coppie o single riguardo ai problemi delle relazioni sentimentali, l’amore deve essere il “luogo” dove trovaresoddisfazione, piacere, rispetto, avventura, eccitazione, imprevedibilità, comprensione e via dicendo, insomma si guarda al proprio partner con la pretesa che ci dia ciò che stiamo cercando.
Anche se sembra normale, tutto questo rivela che in realtà viviamo spesso le relazioni sentimentali in modo poco sentimentale, e molto “economico”, cercando sempre e comunque un tornaconto: può essere l’amore che desideriamo, oppure l’appagamento sessuale, magari la tranquillità e la stabilità emotiva. Qualunque sia quello che cerchiamo, se basiamo le nostre relazioni su pretese e bisogni personali, difficilmente avremo spazio per amare.
Amore o bisogno? Ho scritto di come le due cose siano fondamentalmente incompatibili, nel senso che, se cerchiamo qualcuno perché ne abbiamo bisogno, non potremo amare questa persona, non saremo in grado di dare, perché preoccupati di prendere quanto necessario: invece che amare, saremo portati a chiedere e pretendere.
Spesso le persone (professionisti del settore e non) consigliano di chiudere una relazione se dalla persona che “ami” non puoi avere quello che cerchi. Amore? Io direi egoismo. Quando baso la mia vita solo sul mio interesse (anche pretendere comprensione o attenzioni sono un mio interesse) allora non penserò neanche lontanamente all’amore, ma solo a soddisfarmi. Consigliare ad una coppia di capire se dalla relazione riesce ad appagare i propri bisogni è la tomba dell’amore.
Il vero presupposto per una relazione felice e duratura è amarsi. Amarsi vuol dire dare qualcosa all’altro per il solo piacere di farlo, senza pretendere nulla in cambio. Solo quando due persone scelgono di amarsi reciprocamente, per cui l’uno dona all’altro senza pretese (che poi vuol dire che ognuno riceve dall’altro senza pretese), allora la relazione sarà basata sull’amore, e non sul bisogno o sulla dipendenza.
Scegliere un partner per quello che può darci equivale a scegliere un pantalone per la sua comodità, oppure comprare un’auto per la convenienza o la potenza dei cavalli, oppure acquistare una borsa per la praticità o la sua bellezza: è un modo di agire egoistico che con l’amore, in realtà, non ha nulla a che fare.
L’unica condizione per creare una relazione con una persona che amiamo è che voglia amarci, consapevole di cosa vuol dire amare. Se questo requisito è soddisfatto, allora il resto non conta.
Anno nuovo vita nuova, dovrebbe essere, ma spesso le buone intenzioni e i propositi di inizio anno naufragano con il passare dei mesi, se non dei giorni, per rimanere solo un desiderio da notte di Capodanno. Anche se molte persone riescono a centrare gli obiettivi iniziali, sono sempre troppe coloro che purtroppo non otterranno i risultati sperati, finendo magari con il rassegnarsi all’inevitabilità del loro carattere, del loro destino e della fortuna che è cieca, mentre la sfortuna ci (e li) vede benissimo.
In questi giorni di buoni proposti mi è venuto in mente uno dei motivi principali per cui avere qualcuno che ci guidi in un percorso di crescita personale, di cambiamento, possa risultare determinante: non si tratta di essere o meno capaci di cambiare da soli, quanto di avere sempre gli stimoli giusti per farlo. Un coach, un esperto di crescita personale, qualcuno che ci faccia da guida, ha il compito primario di essere una miniera di stimoli, ispirazione, esempio anche di come possiamo cambiare e realizzare i nostri progetti.
Spesso non si ha la fortuna di essere circondati da persone fiduciose, intraprendenti, sicure di sé, che ci infondono carica e stimolino la nostra voglia di crescere, e quindi tendiamo ad appiattirci, a rimanere al nostro livello, in qualche modo ad accontentarci. Ecco che un life coach, un esperto di crescita personale può essere l’alleato in più per i cambiamenti che desideriamo realizzare.
Qualcuno che crede in noi, che ci stimola a dare il massimo, che comprende le difficoltà ma non lascia che ci adagiamo su di esse, che ci mostra un’alternativa a cui non avevamo pensato, che ci incoraggia a tentare e ritentare, che ci consente di prendere consapevolezza del nostro valore, che ci concede tutto il tempo di cui abbiamo bisogno per crescere senza farcelo pesare, che crede nel nostro successo, che ispira in noi ottimismo e fiducia nelle nostre possibilità.
Ogni anno abbiamo sempre la possibilità di fare tanti propositi e lanciarci sfide interessanti per diventare persone migliori, per diventare quel che vorremmo essere, e la differenza sta tutta in un concetto semplice: possiamo riuscire, se ci crediamo veramente e lavoriamo sodo per farcela.
Possiamo cambiare vita, perché no, possiamo anche stravolgerla letteralmente, possiamo diventare tutto ciò che scegliamo di essere perché siamo persone dotate del potere di farlo, perché la libertà di cambiare è lì, a portata di mano, molto più vicina di quanto non pensiamo: sta nella nostra mente.
Se quest’anno hai deciso di cambiare, hai capito che è arrivato il momento di prendere le redini della tua vita, se hai stabilito che è ora di raggiungere i tuoi obiettivi, ricorda che hai già tutto quello che ti serve per riuscirci, devi solo rendertene conto.
“…ciò che non sia tu e che voglio tu capisca è quanto unico prezioso, insostituibile e solo tuo sia il dono della vita…”
Questa è una canzone che parla di amore e speranza: amore per la vita, speranza in una vita in cui il sole, comunque, esiste per tutti. Anche nelle situazioni più dolorose e complicate, difficile, quelle in cui sembra non esserci una via d’uscita, il sole è sempre lì a splendere, per tutti.
Una splendida canzone che trasmette il giusto messaggio di amore per la vita, che parla di speranza e voglia di lottare, perché la vita, in effetti, è un dono meraviglioso che appartiene solo a noi stessi. Ascoltare questa canzone potrebbe dare quella spinta e voglia di vivere, o magari semplicemente ricordare che il sole esiste per tutti.
Spesso mi capita di parlare con genitori che mi chiedono consigli per aiutare i propri figli: magari si tratta di un pessimo andamento a scuola, oppure di problemi a comunicare a casa, magari non si fidano degli amici o del “giro” che frequentano, altre volte si tratta della loro insicurezza che vorrebbero aiutarli a superare, generalmente il problema è che i figli non gradiscono troppo l’aiuto.
Spesso ho avuto modo di confrontarmi sul tema del “diritto” di un genitore di preoccuparsi del futuro del figlio, della necessità di intervenire anche contro la volontà del giovane, più semplicemente della necessità che sia un adulto a imporre certe regole necessarie. Vorrei mettere in chiaro qualche consiglio rivolto ai genitori per migliorare la situazione, prima ancora di tentare di risolvere il problema.
Per prima cosa vi consiglio di essere sinceri ed onesti con vostro figlio: evitate assolutamente di nascondere la preoccupazione che avete, evitate di cercare soluzioni di nascosto, di omettere elementi che lo riguardano, di agir a sua insaputa.
Coinvolgetelo sempre, che si tratti di discutere della scuola oppure decidere cosa fare nelle vacanze estive: fatelo sentire partecipe della famiglia anche nel prendere decisioni, in modo che possa rendersi conto che gli riconoscete un certo valore.
Prima di stabilire come risolvere un problema che lo riguarda, provate a chiedere la sua opinione. Per quanto banale molti genitori sono convinti che non ne abbia una o che sia inadeguata: che ne pensa lui della situazione? Per quale motivo la vede così? Come la vive? Cosa pensa di fare per cambiarla? Vuole cambiarla? Cosa gli interessa? Quali sono le sue priorità?
Date per scontato che lui sia in grado di affrontare le difficoltà del momento e non cadete nella trappola di credere che abbia bisogno del vostro aiuto perché da solo non è capace. Avrà probabilmente bisogno di voi, ma, soprattutto, per supportarlo e consigliarlo, non per sostituirlo.
Infine, la cosa però più importante: aiutatelo a riflettere e poi accettate e rispettate la sua scelta. Ovviamente questo varia molto in funzione dell’età, ma anche un ragazzino di dodici anni deve iniziare a ragionare ed assumersi le sue responsabilità. Volete il suo bene? Imparare a scegliere e assumersi la responsabilità delle sue scelte è il suo bene.
Ricapitolando:
1.Sincerità e onestà con vostro figlio 2.Coinvolgetelo attivamente 3.Chiedete il suo parere e comprendetelo 4.Aiutatelo riconoscendone il valore 5.Rispettate le sue scelte e i suoi punti di vista
Alcuni credono che la creatività sia una dote esclusiva di poche fortunate persone che sono un grado di avere intuizioni geniali, inventare nuove soluzioni ai problemi, creare campagne pubblicitarie, scrivere una canzone o preparare una coreografia.
In realtà la creatività è una potenzialità propria di ognuno di noi. Tutti quanti disponiamo di questa risorse anche se a volte, per via anche del proprio lavoro o del modo di vivere, la sfruttiamo poco, o almeno così pensiamo: anche se non ce ne accorgiamo facciamo ricorso a questa nostra dote molto spesso, ogni qual volta troviamo un modo nuovo di affrontare un problema, in ogni sms che inventiamo, quando cuciniamo qualcosa di originale, nel modo in cui insegniamo a qualcuno come fare qualcosa che conosciamo bene.
Data l’importanza della creatività ecco qualche idea per allenare una potenzialità fondamentale per vivere bene.
Per prima cosa dobbiamo essere consapevoli che abbiamo eccellenti risorse creative a nostra disposizione. Se non crediamo di averle non le utilizzeremo mai, quindi dobbiamo prestare attenzione a tutte le volte in cui “inventiamo” qualcosa di nuovo.
Prendiamo l’abitudine di modificare l’ordine dei nostri oggetti di casa: i soprammobili, i quadri, la disposizione dei divani o l’ordine dei libri in libreria.
Almeno una volta a settimana troviamo un nuovo modo di utilizzare un oggetto che abbiamo a disposizione. L’idea è quella di trovare usi nuovi ma efficaci, che magari ci aiutano a risolvere qualche problema in casa.
Prendiamo ad esempio un’attività che svolgiamo abitualmente, anche in ambito lavorativo, e inventiamo un modo originale per svolgerla diversamente. Cerchiamo varianti creative, ma funzionali, cambiandole periodicamente.
Dedichiamo del tempo a scrivereun libro, una lettera, un articolo, un racconto, un saggio. Scegliamo un ambito di interesse, qualcosa che ci appassiona e dedichiamogli almeno un ora a settimana.
Ricapitolando:
1.Prendiamo dimestichezza con la nostra creatività 2.Ridisegniamo la nostra stanza o casa 3.Troviamo nuovi usi per gli oggetti a nostra disposizione 4.Reinventiamoci attività e lavoro 5.Dedichiamoci ad attività creative come la scrittura
In un precedente articolo ho già parlato di autostima e precisamente ho dato alcuni consigli pratici per rafforzare l’autostima in modo tale da poter sviluppare una maggiore sicurezza in se stessi. Adesso voglio andare oltre e chiarire alcuni concetti basilari su questo tema.
Innanzitutto mettere in chiaro come spesso si fraintenda il concetto di autostima e se ne dia un significato differente: siamo propensi a credere che l’autostima sia qualcosa che dipende dagli altri, dai loro giudizi, dalle critiche e dalle lodi, così come dal successo o dall’insuccesso personale, oppure dalle circostanze e gli eventi che c troviamo a vivere. Ma non è così.
Per capire come l’autostima sia qualcosa di fondamentalmente indipendente dalle opinioni che gli altri possono avere di noi bisogna risalire ad una definizione chiara e precisa di cosa sia l’autostima: si tratta della mia autonoma valutazione del mio valore personale come persona.
Questo significa, in sostanza, che è il mio giudizio su me stesso, la stima che faccio io del mio valore in generale, delle mie qualità e delle mie potenzialità. In quanto si tratta di una nostra stima personale, essa non è dipendente dal parere degli altri, anche perché, se così fosse, non si tratterebbe più di un’autostima, ovvero una valutazione personale, ma di un eterostima, ovvero di una valutazione esterna, fatta da altri e non da noi.
Un altro errore comune che si fa parlando di autostima è quello di confonderla con l’arroganza di chi si reputa infallibile, o finge di esserlo, e l’eccessiva, e distorta, valutazione positiva che molti hanno di se stessi. Lungi dall’essere una reale autostima, si tratta spesso di una maschera per nascondere insicurezza e timidezza, spesso molto legata ai successi e all’apprezzamento esterno.
Molte critiche mosse all’autostima vertono infatti sulla pericolosità di un’eccessiva arroganza e sul senso di superiorità che poi crolla nel momento in cui si scontra con la realtà e con le sconfitte – inevitabili nel corso della vita – che non si erano preventivate: credere di essere infallibili non è autostima, poiché spesso questa convinzione non è frutto della propria valutazione di sé, ma dell’opinione degli altri, di incoraggiamenti eccessivi e di scarsa consapevolezza di sé.
Inoltre l’autostima, di per sé, non va vista come un concetto positivo, ma come un qualcosa di neutro: si tratta in pratica della valutazione che facciamo di noi stessi. Questa sarà poi positiva, qualora riconoscessimo di valere, o negativa, qualora ci svalutassimo. Il problema non è avere scarsa autostima, ma piuttosto non averla affatto, ovvero non essersi mai presi la briga di valutarsi con la propria testa.
Quando parliamo di autostima (è questo un concetto basilare), dobbiamo pensare ad un giudizio che non deve essere figlio delle critiche degli altri, dei successi che ci vengono riconosciuti o degli eventi più o meno favorevoli, ma sempre e comunque del nostro autonomo pensiero. Solo quando siamo noi, con la nostra testa, a valutare il nostro valore possiamo parlare di autostima.
Quando parlo di curiosità non mi riferisco alla voglia di conoscere fatti privati di altre persone, al pettegolezzo, ma a quella spinta alla conoscenza, alla scoperta, quella voglia che abbiamo di sapere e vedere cose nuove, quell’impulso che ci spinge a voler capire il perché delle cose, a voler provare.
La curiosità è fondamentale nella nostra via, ci permette di crescere e migliorare, ci aiuta a comprendere e ci guida alla scoperta del mondo. Se da piccoli siamo tutti dotati di una forte curiosità, crescendo spesso si perde parte di questa disposizione e si diventa più chiusi, statici, apatici e annoiati.
La noia è nemica della curiosità, e poiché una vita piena ed appagante ha bisogno di una buona dose di curiosità, ecco qualche idea per allenarci ad essere più curiosi.
Dedicare del tempo ad osservare le cose che accadono attorno a noi, in modo curioso, è molto importante. Un po’ come fanno i bambini quando sono capaci di stare ore a guardare una colonia di formiche o i movimenti di un ragno. Dedichiamo almeno un ora a settimana ad osservare e scoprire qualcosa che di solito non guardiamo o diamo per scontata.
Almeno una volta al mese scopriamo una nuova città , visitiamo una zona che non conosciamo, esploriamo un nuovo paese o un nuovo Stato. Basta anche andare in un quartiere mai frequentato, oppure in una zona di campagna vicino casa nostra. L’importante è scoprire qualcosa di nuovo.
Apriamoci alle culture differenti, magari frequentando una persona di etnia diversa e imparando usi e costumi, oppure attraverso la sperimentazione di cibi esotici e delle tradizioni e culture che ne sono alle spalle.
Ogni volta che incontriamo parole o concetti che non conosciamo, prendiamo l’abitudine a scriverli su un foglio e fare una ricerca per saperne qualcosa in più.
Sfruttare televisione, giornali, libri o internet per scoprire notizie o informazioni nuove è un ottimo modo per tenerci in allenamento.
Ricapitolando:
1.Osserviamo con curiosità ciò che ci circonda 2.Visitiamo luoghi nuovi e sconosciuti 3.Apriamoci a culture, cibi e costumi differenti 4.Incuriosiamoci di cose che non conosciamo 5.Abituiamoci a ricercare sempre nuove informazioni
“Se io dovessi affidare il mio destino, la mia fortuna, a un uomo e soltanto a lui, tale uomo potrei essere io? E se tale uomo non fossi io, cosa aspetto a diventarlo?”
Attraverso una breve e piacevole storia, Mark Fischer ci porta a conoscere una Saggio uomo che pare abbia scoperto il segreto della vita. Le pagine di questo libro scorrono veloci e semplici, lasciandoci in mano alcune riflessioni, come quella citata, che ci spingeranno a cercare risposte differenti.
Non voglio mostrarlo come un libro sconvolgente, perché non lo è: si tratta di una racconto che semina riflessioni sulla vita, sul valore del denaro e sul significato del nostro agire, del nostro sempre correre. Lo consiglio anche solo per immergersi, per qualche tempo, in un incontro che potrebbe – a dirlo sarete voi – suggerirvi qualcosa a cui ancora non avevate pensato.
Ottimo per coloro che cercano la felicità e credono che si possa comprare o barattare con qualcosa, perfetto per chi non vuole leggere “cose complicate”, ma cerca comunque qualche idea o spunto per iniziare il proprio viaggio di crescita.
Molti mi chiedono: “Perché dovrei lavorare sulla mia leadership? Cosa me ne viene? Che ci guadagno? Cosa cambierà nella mia azienda? Come inciderà sui miei profitti? Sui costi?” Poiché sono domande che sento spesso quando parlo di leadership, credo importante chiarire quali sono le risposte.
La leadership, in pratica, è la capacità di guidare gli altri verso una meta prefissa, aiutandoli a trovare ciascuno la propria strada, e poiché qualsiasi associazione, azienda o gruppo altro non è che un insieme di persone, la leadership influenza il sistema ed il contesto. Ecco cosa ce ne viene a diventare leader migliori: possiamo influenzare positivamente il contesto in cui lavoriamo, aumentare l’efficacia e l’efficienza economica e produttiva.
Una forte leadership permetterà, ad esempio, ad un imprenditore di ottenere dai suo dipendenti prestazioni migliori, che significa maggior efficacia del costo lavoro, meno errori (= meno costi), maggiore partecipazione agli obiettivi dell’azienda, e quindi voglia di fare bene, più idee e più soluzioni ai problemi.
Essere ottimi leader permette di avere ottimi collaboratori, motivandoli nel modo giusto, per ottenere da loro quella responsabilità che spesso si chiede ma che raramente si trova. La leadership influenza la capacità di tutti di assumersi rischi, di voler raggiungere gli obietti, di essere uniti nei momenti complicati. Incide sull’opinione dei dipendenti, ci aiuta ad avere relazioni ottimali con le parti sociali. Un grande leader, che lo sia realmente, avrà sempre meno scontri con i sindacati: ad esempio, saprà trovare soluzioni condivise con chi ha interessi anche divergenti, saprà fare di un gruppo di persone una squadra.
I profitti, per toccare un tasto decisivo per qualsiasi attività, dipendono dalla differenza tra i costi ed i ricavi. Se nella mia attività non ci sono tempi morti, momenti in cui nessuno sta con le mani in mano, ma si impegna, cerca soluzioni, si assume responsabilità e lavora nell’interesse di tutti, allora potrò contare su meno costi, su meno sprechi e migliori performance. I risultati con i miei clienti, qualunque sia la mia attività, dipendono dal modo in cui tutto il mio gruppo, tutti i miei dipendenti, interagiscono con loro: una leadership positiva si traduce in dipendenti migliori.
La leadership non è un insieme di incontri appariscenti, belle frasi scritte sul muro della società, campagne pubblicitari simpatiche o immagini accattivanti: la leadership è una capacità relazionale. Qualsiasi realtà è fatta sempre e comunque di persone, loro sono l’azienda, loro sono l’associazione, loro sono i collaboratori fondamentali, i co-creatori di un successo. Il leader è colui che questo lo sa bene, e sa trasformare un gruppo di dipendenti in una squadra di alleati che vogliono vincere la partita: o si vince insieme, o si perde tutti quanti.
Perché diventare leader migliori? Perché qualsiasi risultato otterrai, qualunque successo tu persegua, qualunque guadagno tu desideri, esso dipenderà dalla tua leadership.
In questo agile libro, il dottor Dyer spiega con chiarezza, esempi e molti dettagli, come liberarci di alcune sgradevoli “zone erronee”, ovvero dei comportamenti che sono parte di noi, ma che rappresentano dei punti spiacevoli, limitanti o bloccanti per la nostra realizzazione personale e per la nostra vita.
Che si parli di dipendenza dagli altri, dal loro giudizio, oppure di rabbia o ancora di ansia o stress, possiamo liberarci di questi comportamenti scorretti attraverso l’esercizio e la consapevolezza. In questo libro vengono così affrontati alcuni aspetti principali di ciascuna zona, evidenziando come e perché ci si cada dentro e come uscirne. Un testo per nulla specialistico e interessante per tutti coloro che vogliono realmente crescere e migliorare.
Gi spunti offerti nel libro sono molto utili per tradurre in pratica i nostri propositi di cambiamento, per aiutarci a superare limiti e ostacoli che, spesso, siamo noi stessi a porci. Lo consiglio a tutti coloro che sono anche solo curiosi di conoscere qualche rimedio rapido per superare questi limiti.
Uno dei libri che non farei mai mancare nella libreria di casa, sia che si voglia usufruire di consigli per trattare meglio con i propri colleghi, sia che si voglia leggere qualche utile suggerimento per migliorare i propri rapporti sociali, con chiunque. Come trattare gli altri e farseli amici non è un testo di eloquenza o persuasione, non nel senso stretto, ma un piccolo e pratico manuale su come comportarsi con gli altri, basato non sulle tecniche di comunicazione ma sull’approccio umano all’altra persona.
La caratteristica principale del testo è la facilità di lettura, ricco di spunti, riflessioni, racconti ed esempio pratici di come le idee ed i consigli trattati siano stati efficaci per qualcuno. Un libro basato sulla genuinità e sulla buone intenzioni, elemento fondamentale per trattare gli altri bene, e farseli amici.
È un libro che si legge velocemente e si ricorda a lungo, una fonte di ottime idee per ricordarci, perché nessun consiglio apparirà mai una rivoluzione copernicana del modo di relazionarci con gli altri, che siamo tutti persona meritevoli di cura, attenzione e rispetto. Leggerlo ci riporta a considerare come possiamo con gentilezza e comprensione, sincero interesse per gli altri e sensibilità, avere relazioni piacevoli e gratificanti.
Imperdibile per chiunque faccia della comunicazione il proprio lavoro, utilissimo a chiunque viva in relazione con un’altra persona almeno. Lo consiglio vivamente a tutti.
Parliamo di un film drammatico e commovente, con un messaggio importante reso da una recitazione ottima in ogni passaggio, tratto dal romanzo di Catherine Ryan Hyde “La formula del cuore”. È la storia di un ragazzino di prima media che, solo con la madre, conosce a scuola un nuovo professore si scienze sociali. Il primo compito da svolgere è quello di trovare un modo di dare un contributo al mondo. Il protagonista, nonostante al giovane età, crea un sistema di scambio di favori dove per ogni favore ricevuto, bisogna farne altri tre, a persone che non possono fare qualcosa da sole e chiedendo poi in cambio la continuazione della catena. Il messaggio si diffonde rapido fino ad interessare la televisione, in un finale riflessivo, ma purtroppo drammatico.
La qualità del film, e la bellezza del messaggio, richiederebbero una diffusione ben maggiore. È un film che consiglio vivamente di guardare, considerando l’impatto emotivo notevole, per comprendere come, ancora una volta, il potere è dentro di noi, nella nostra mente, come possiamo realmente cambiare il mondo, partendo dal nostro piccolo. Trovo sia una pellicola da guardare soprattutto per trarre la forza e la tenacia necessarie per fronteggiare ingiustizie e malfunzionamenti della società che a volte non tolleriamo, per ricordarci che noi siamo soggetti attivi e non passivi in questa vita.
Di Peter Jackson, Nuova Zelanda/USA 2001-2003, New Line Cinema
Il primo film che mi sento di consigliare è la trilogia del Signore degli Anelli. Tratto dall’omonimo romanzo di J. J. R. Tolkien, il film ha il vantaggio di essere molto più immediato ed emotivamente coinvolgente, per quanto il libro, per chi intendesse leggerlo, ha un impatto più profondo e ampio.
La trama è conosciutissima oramai, quindi eviterò di riportarla inutilmente. Preferisco invece soffermarmi sul valore di questa pellicola.
Anche se il genere non piacerà a tutti, questo film enfatizza profondamente il valore positivo della speranza, della tenacia e della fede, in senso lato. Alcuni dei passaggi più belli vertono proprio su questi temi, ed in particolare verso al fine del secondo capitolo, quando Sam e Frodo si trovano a comprendere cosa ancora li spinga a sostenere le enormi fatiche del loro viaggio, e verso la fine del terzo capitolo, quando Aragorn enuncia un mirabile discorso per incoraggiare i propri uomini in una battaglia che pare senza speranza. Ma al speranza c’è sempre.
Un passaggio molto interessante è poi a metà del primo capitolo, in un discorso di Gandalf a Frodo su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, troppo impaziente di “elargire sentenze e condanne”.
Nel complesso trovo sia un film estremamente positivo, il cui messaggio di fondo, la speranza, è sempre vivo durante ogni passaggio, anche quelli in cui sembra impossibile che le cose possano andare bene, un po’ come nella vita. Io consiglio di vederlo con attenzione e soprattutto, vista anche la durata notevole, con calma.
Di Marco Masini, Raccontami di te, MAMADUE Records/Il Piviere/BMG Ricordi2000
“…non odiare chi ti vuole rubare il futuro, rendi il bene, per il male Buon Natale”
Basterebbero queste parole per spiegare la profondità di questa canzone e la straordinarietà del messaggio, tra l’altro decisamente in tema adesso. Un messaggio d’amore che non nasce oggi, che troviamo nel cuore delle parole di Gesù e di tutte le filosofie e le religioni basate sull’amore, ma che rimane troppo spesso lettera morta.
Vi invito a leggere il testo della canzone ed ascoltarla con attenzione, in ogni sua strofa, perché condensa in musica e poesia il fulcro del concetto di amore e del perdono. Imparare ad amare e perdonare non è semplicemente una scelta possibile, ma l’unica vera strada per una vita felice e pienamente realizzata. Amore e perdono costituiscono la parte fondamentale del nostro potenziale umano.
Quando si parla di orientamento scolastico nella scuola secondaria superiore, di solito si fa riferimento ai test che team di psicologi somministrano ai ragazzi dell’ultimo anno per aiutarli a capire quali capacità e predisposizioni abbiano, di modo che scelgano la carriera universitaria o il lavoro più adatti alle loro capacità. Test o colloqui di orientamento, generalmente, puntano a comprendere il settore in cui ogni ragazzo può esprimere il meglio di sé, ottenere buoni risultati, eccellere e avere successo in futuro. Sebbene gli intenti siano lodevoli, e lo scopo sia quello di indicare anche la via che “garantisca” maggiormente un lavoro, manca qualcosa: che fine ha fatto la passione?
Anche il passaggio dalla scuola media a quella superiore è segnato dei consigli di professionisti e insegnanti che aiutano genitori e ragazzi ad orientarsi, consigli che di solito puntano solo a mostrare i settori dove i giovani eccellono, a indirizzarli verso quei percorsi nei quali potranno avere successo. Sembra che quasi tutti (ma eccezioni ve ne sono, fortunatamente!) si siano dimenticati dell’importanza della passione.
Purtroppo mi capita di sentire obiezioni alla considerazione che non si può scegliere un lavoro o un indirizzo che richiede anni di studio solo in funzione delle possibilità lavorative, perché bisogna guardare alla sicurezza economica di un domani e ad un posto stabile, anche se oggi questa prospettiva ha perso molto nel riscontro pratico. Il vero problema è che in nome di una “sicurezza” socio-economica dimentichiamo la felicità personale e l’autorealizzazione. Romantico? Niente affatto.
Anche il lavoro più sicuro e ben pagato, se fatto senza passione, senza un profondo e autentico interesse, finirà col diventare una prigionia, una costrizione frustrante, diverrà un peso che renderà amara qualsiasi vita. Come esseri umani abbiamo bisogno di sentirci realizzati, e possiamo realizzarci solo esprimendo tutto il nostro potenziale: la via per farlo è dare spazio alle nostre inclinazioni, alle nostre passioni, e poco importa se in quel che amiamo realmente fare non diventeremo dei Murinho oppure dei Picasso. Alla fine conterà veramente aver trovato il successo a costo della nostra felicità? Non credo.
Dobbiamo riscoprire le nostre passioni, ritrovare quelle attività che ci riempiono le giornate di soddisfazione, che danno un senso profondo e appagante alla nostra vita. Se vogliamo vivere una vita felice – ricordo di aver letto –, dobbiamo fare un lavoro che amiamo. Non si tratta di idealismo e fantasia, ma di trasformare le nostre passioni in un lavoro, di tradurre in denaro ciò che amiamo fare, o di amare il lavoro che facciamo: questo è il vero segreto del successo.
Il primo passo è quindi riscoprire cosa amiamo fare, cosa ci gratifica, capire che lavoreremo molte più ore della nostra vita di quante non ne dedicheremo a qualsiasi altra attività: perché non impiegarle in qualcosa di appassionante e soddisfacente?
Spesso capita che ci si ritrova in situazioni che non ci piacciono, oppure che siamo costretti a fare cose che troviamo fastidiose che preferiremmo evitare o, ancora, che siamo vincolati a situazioni e opportunità che ci annoiano e non ci entusiasmano affatto.
Per “goderci” la vita dovremmo puntare sempre a fare cose entusiasmanti, che amiamo, cimentarci in situazioni piacevoli e interessanti; ma il vero segreto è saper rendere tali tutte le attività che ci tocca svolgere. Se non puoi fare quello che ami, impara ad amare quello che fai.
Per tutti quelli di voi che pensano “questa cosa è noiosa” oppure “odio fare questo o quello” ecco qualche idea per rendere piacevoli e interessanti anche situazioni che sembrerebbero non esserlo affatto.
Per prima cosa concentriamoci sugli aspetti positivi (fossero anche minimi o banali). Almeno un elemento positivo lo troveremo di sicuro, quindi focalizziamoci su quello e non sulle cose negative.
Affrontiamo l’esperienza in modo “scientifico”, cercando di scoprire quanto non conosciamo, evitando di giudicare in modo superficiale e puntando a scovare cosa c’è al di là dell’apparenza.
Un aiuto arriva del nostro modo di pensare: se questa attività mi piacesse, dobbiamo chiederci, per quale motivo la troverei gradevole? Cosa apprezzerei? Cosa ci sarebbe di interessante? Come mi comporterei?
Un buon supporto arriva da chi trae già piacere da qualcosa. Chiediamo a chi è appassionato cosa ci trova di divertente o interessante, cosa lo soddisfa, quali aspetti, che noi ancora non vediamo, sono affascinanti secondo lui.
Un altro buon approccio è quello di mettere in dubbio la nostra convinzione che quella cosa sia effettivamente noiosa: In base a cosa lo pensiamo? È realmente così? Come mai ad alcuni invece piace? Possibile che non vi siano aspetti positivi?
Infine sarebbe opportuno avere un atteggiamento di scoperta e curiosità. Affrontiamo qualsiasi cosa ci potrebbe apparire noiosa con entusiasmo, immergendoci senza critiche e pregiudizi. La noia è un atteggiamento della nostra mente, non una caratteristiche delle cose.
Ricapitolando:
1.Focalizziamoci sulle cose positive e divertenti 2.Approcciamoci alle cose con la volontà di scoprire 3.Scopriamo cosa piace agli altri 4.Mettiamo in dubbio le nostre convinzioni 5.Adottiamo un atteggiamento curioso ed entusiasta
Chissà quante volte ci sarà capitato di chiederci se esiste la persona giusta, magari in seguito ad una delusione sentimentale, oppure al termine di una nostra storia d’amore, o magari nel constatare le nostre difficoltà a trovarla, conoscendo persone che non sono quella che stiamo cercando. Oggi, poi, vedo come ci sia un’esigenza ancora più forte in questo senso, quasi che rispetto al passato la certezza di trovare la nostra “dolce metà” siano diminuite, come quelle di un lavoro stabile o di una vecchiaia economicamente serena.
Avendo modo di parlare con tante persone di emozioni, sentimenti e relazioni, ho scoperto che il punto centrale attorno a cui gira la nostra vita è trovare la persona giusta. In un testo di Erich Fromm ho letto di come, a giudizio dell’autore, si ponga l’attenzione solo sull’oggetto del desiderio, la persona giusta appunto, e non sull’azione in sé, cioè l’amare. Temo sinceramente che lo psicologo Tedesco non si sbagliasse, anzi. Dando un’occhiata a vari forum in giro per la rete, mi rendo conto, ogni giorno di più, di come a volte sia quasi esasperata questa ricerca, di come sia diventato necessario e fondamentale trovare questa persona giusta per noi.
Alcuni confidano di riuscire in questa ricerca e puntano a non “accontentarsi” di niente di meno, altri sembrano poco inclini a credere che esista realmente una “persona giusta”, altri ancora hanno del tutto lasciato ogni speranza che questa li stia aspettando. Poi ci sono quelli convinti che la persona giusta non è una, ma tante, per cui possiamo andare alla ricerca di quelle che possono andare bene e trovare il nostro compagno di vita. Ma a questo punto mi sorge una domanda: che ruolo abbiamo noi nella nostra relazione se tutto dipende dal trovare la persona giusta, quando questo può dipendere dal caso?
Io trovo che l’errore sia proprio questo: credere che esista una persona giusta con la quale tutto sarà perfetto, magari non senza difficoltà, ma comunque perfetto. Ragionare in questo modo significa dare più importanza all’oggetto che cerchiamo – che non dovremmo dimenticare che si tratta di una persona e non di una cosa – che non all’amare.
Cosa vuol dire “giusta”? Che ha il titolo di studio che dico io? Che ha il carattere che dico io? Che frequenta i locali che mi piacciono oppure coltiva i miei stessi interessi? E se così non fosse? Semplice, nel momento in cui la persona reale che abbiamo di fronte non corrisponde con la persona ideale che crediamo giusta, la scartiamo, ansiosi di trovare il modello che abbiamo in mente.
In tutto questo ci dimentichiamo, tragicamente, di amare: conoscere l’altro in profondità e nel tempo, accettare anche i difetti che non amiamo, il carattere che non abbiamo idealizzato, rispettare idee, opinioni e punti di vista differenti, comprendere l’altro e andare oltre le apparenze.
Ma come trovare il tempo per fare tutto ciò, per amare, se siamo sempre presi dalla fretta di capire se si tratta della “persona giusta”, se dobbiamo scoprire subito se è quella che stiamo cercando, oppure se dobbiamo continuare la ricerca? La verità è che una relazione felice non dipende dal trovare la persona giusta, ma dall’imparare noi,per primi,ad amare.
Conosco parecchie persone che vorrebbero fare tante cose: hanno idee, sogni, progetti anche molto concreti che però non realizzano mai. Se si tratta di spiegare cosa intendono fare potrebbero farlo senza problemi, con ricchezza di particolari, ma se provate a verificare come intendono procedere, non hanno idee chiare, non hanno un piano e restano ancorate ai loro vorrei, ma ora non posso, so che dovrei, ma ora non ci riesco.
Per prima cosa bisogna chiarire bene i tanti vorrei e scegliere cosa “vorremmo” far diventare realtà. Decidere in pratica un’idea su ci lavorare.
Stabilito questo è fondamentale stabilire tutte le risorse di cui avremo bisogno: disponibilità economica, competenze personali, collaborazioni necessarie, e tutto ciò che servirà per realizzare il nostro progetto. Questo ci permette anche di valutare quanto sia fattibile realmente.
È importante poi scrivere un elenco di tutte le cose che dobbiamo fare per realizzarlo. Qualsiasi azione o tappa deve essere messa su carta per avere chiaro cosa fare.
Poi dobbiamo stabilire come e quando faremo tutto questo. Se sappiamo cosa dobbiamo fare e abbiamo anche stabilito quando, abbiamo realizzato un piano operativo che ci permette di avere controllo sulla situazione. Se il “vorrei” è astratto, un piano dettagliato rende il tutto molto più tangibile.
A questo punto è necessario iniziare a percorrere i passi che abbiamo stabilito, dare attuazione al nostro piano, partendo anche da cose piccole e facilmente realizzabili. Agire ci permette di veder prendere vita alle nostre idee e fornisce la motivazione a proseguire.
Sfruttiamo tutti gli aiuti che possiamo darci, come usare promemoria per ricordarci gli impegni, stabilire scadenze per stimolare la nostra produttività, tradurre ogni idea in azioni concrete.
Ricapitolando:
1.Stabiliamo cosa vorremmo realizzare 2.Stabiliamo le risorse necessarie valutandone quindi la fattibilità 3.Facciamo un elenco di tutte le cose che dobbiamo fare 4.Definiamo un piano con modi e tempi pratici 5.Agiamo con decisione 6.Cerchiamo aiuti e stimoli all’azione
Nonostante le rassicurazioni pronunciate spesso da politici e i dati statistici che periodicamente segnalano cambiamenti positivi, in molti sentono ancora la crisi economica e occupazionale ben più che come un’ombra in fase di passaggio: la crisi c’è e le conseguenze continuano a farsi sentire.
Giusto o sbagliato che sia, è innegabile che nell’ultimo anno, per esempio in Italia, sia calata l’occupazione, siano diminuite le assunzioni e molte imprese abbiano chiuso i battenti. È quindi evidente una situazione complicata sul piano occupazionale, con molte persone che perdono il lavoro (spesso solo precario) e molte altre che fanno fatica a trovarlo o addirittura non lo cercano nemmeno.
In questo quadro è facile che venga meno la fiducia nelle possibilità di trovare un’occupazione o di mantenerla, ma è esattamente il tipo di atteggiamento che impedisce di uscire dalla crisi. È necessario, per un cambiamento strutturale del sistema e del mercato, un contributo dello Stato e di tutti gli Enti preposti se vogliamo uscire dalle difficoltà del momento, ma trovo sia fondamentale, nel nostro piccolo, iniziare noi stessi un processo di cambiamento.
Un cambiamento positivo e costruttivo deve partire anche dal basso, da ciascuno di noi, dal nostro approccio al problema lavoro, dal nostro atteggiamento, dalla nostra intraprendenza e pro-attività per iniziare a guardare alle soluzioni e non solo ai problemi. Sebbene le difficoltà ci siano – ed è innegabile –, è però un grave errore lasciarsi sfuggire le opportunità, anche se poche, che sono comunque disponibili.
Dando un’occhiata ad una delle regioni maggiormente in difficoltà sotto questo punto di vista, la Calabria, emerge, sì, l’elevato tasso di disoccupazione, specie in confronto con altre realtà nazionali o con l’Europa, ma emerge anche la presenza di possibilità concrete. Facendo un giro su internet, solo nell’ultimo mese, sono stati pubblicati in regione oltre 600 annunci di lavoro. Si tratta spesso di lavori a tempo determinato, ma ci sono molti posti con stipendi di 1000 euro mensili, molte offerte che non chiedono né esperienza (un blocco all’ingresso di giovani nel mercato), né requisiti di studio elevati (spesso basta un diploma).
Il punto su cui dobbiamo riflettere è che ogni giorno escono decine di annunci per cercare lavoratori, opportunità che andrebbero sfruttate subito, colte al volo, anche se non saranno la soluzione definitiva: lavorare per tre mesi è meglio che non lavorare affatto.
L’atteggiamento dovrebbe essere costruttivo: prendere subito le occasioni che ci sono continuando a cercare una soluzione più stabile e gratificante, magari prendendo in considerazione l’ipotesi di costruirsela da sé. Cambiare atteggiamento non risolverà tutti i problemi che la crisi ha (o sta) evidenziando, ma ci permetterà di affrontare le difficoltà in modo costruttivo, cercando una soluzione invece che rimanendo sfiduciati a lamentarsi dei problemi.
Una ragazza mi ha chiesto se non sia assurdo che oggi si ricorra a divorzi e separazioni con facilità, senza troppa convinzione, nella possibilità di superare incomprensioni e crisi. Io le ho detto, ironicamente, che se lui lascia la tavoletta in bagno alzata lei chiede il divorzio.
Ovviamente era una battuta ma la verità, purtroppo, è che spesso sono proprio queste banalità, questi dettagli marginali a fare la differenza, in negativo spesso, nella qualità e solidità di una relazione.
Il problema sta nella eccessiva superficialità con cui vengono costruite le relazioni di coppia; troppo spesso la scelta di costruire una vita in comune parte da elementi superficiali e volubili, come l’aspetto fisico, il carattere, le passioni e gli interessi.
Basare una relazione che si vorrebbe durasse senza fine su caratteristiche effimere, che mutano nel tempo e spesso cambiano anche profondamente, non è certo una buona garanzia. Nonostante ciò molte coppie trovano in questi elementi la chiave del loro rapporto. Non c’è da stupirsi che divorzi e separazioni siano tanto frequenti.
Il punto è che non si ha la forza e la volontà di affrontare le difficoltà e le crisi che possono presentarsi in una relazione. Quando le cose iniziano a non andare bene è più facile dare un colpo di spugna e cancellare tutto, ricominciando da capo con un ‘altra persona, piuttosto che impegnarsi a migliorare la propria relazione.
Alla base di questo atteggiamento c’è il problema di relazioni che nascono confondendo bisogno e amore . Se due persone si uniscono per soddisfare le proprie esigenze, nel momento in cui crisi ed incomprensioni fanno venire meno tale soddisfazione è facile che entrambi cerchino altro, convinti che quella persona non sia più in grado di dar loro ciò che cercano.
Cambiando partner vanno alla ricerca di un’altra fonte di piacere e soddisfazione, sempre spinti dall’egoistico desiderio di ottenere qualcosa, di soddisfare le proprie necessità. Ecco che anche i piccoli e banali dettagli diventano frustrazione al proprio piacere e fonte di crisi e separazioni.
Il problema, come sempre, andrebbe risolto alla radice: una relazione basata sulla volontà incondizionata di amare, libera e indipendente, non pretende nulla e non chiede niente in cambio. L’amore non è un commercio, è un dare senza pretese. Se due persone si amano veramente, allora non reggono il loro rapporto su un bisogno individuale e non potranno metterlo in crisi le piccole banalità.
Se ami qualcuno per il piacere di amare, i dettagli non sono un ostacolo, sono una caratteristica dell’altro, qualcosa che fa parte di lui e che ogni giorno scopri e impari ad amare, non pretendi più che ti dia soddisfazione, e anche la tavoletta, in fondo, non starà poi tanto male alzata.
Il metodo è un fattore determinante per superare le difficoltà nello studio, per ottenere risultati migliori, per impiegare meno tempo e meno fatica, per affrontare esami, interrogazioni o compiti scritti in modo sereno e positivo. Come coach mi piace lavorare con gli studenti per aiutarli a sviluppare un loro approccio personale, mettendoli nelle condizioni di ottenere risultati ottimali con meno sforzo di quanto non si aspettino all’inizio. L’approccio è sempre personale (se vuoi saperne di più), ma qualche consiglio generico per migliorare il tuo metodo di studio potrebbe farti comodo.
Per prima cosa bisogna avere un programma chiaro, preciso e ordinato. Il disordine non solo non aiuta nello studio, ma impedisce anche di pianificare il lavoro da fare e rende spesso improvvisato ogni sforzo. Un programma dovrebbe prevedere tempi precisi dedicati allo studio e tempi precisi al riposo.
Altro fattore importante è quello di eliminare ogni tipo di distrazione: si tratta di rimuovere elementi di disturbo, come la televisione o il computer, il cellulare oppure le visite di amici e parenti; si tratta di ritagliarsi uno spazio esclusivo per studiare, anche piccolo, senza dedicarsi a fare nient’altro.
La flessibilità è una delle componenti principali di un buon metodo di studio: significa saper valutare con attenzione se il proprio sistema funziona e saper cambiare in caso contrario. Ad esempio, variare modo di memorizzare i dati, passando magari dalla ripetizione silenziosa a quella ad alta voce, agli appunti o altro. In pratica, se non funziona, cambiare approccio.
Un altro aspetto rilevante nel metodo di studio è la pratica e l’esercizio. Quanto più sperimentiamo concretamente quello che dobbiamo imparare, tanto meglio saremo in grado di comprenderlo. Pratica potrebbe voler dire esercizi, simulazioni, esempi concreti, ma anche insegnare le cose apprese a qualcun altro, magari creare una vera e propria lezione.
Sarà importante anche aver ben chiaro il risultato finale, ovvero non affrontare lo studio di un argomento senza neanche la minima idea di cosa si tratti ma lavorare sempre consapevoli dei risultati che devono essere raggiunti, ad esempio conoscere quali informazioni vanno acquisite, piuttosto che le tecniche da imparare o le risposte che saranno richieste in un esame.
Ricapitolando:
1.Creare un programma chiaro e preciso 2.Escludere ogni distrazione 3.Cambiare approccio se i risultati non soddisfano più 4.Esercitasi molto ed in modo creativo 5.Avere chiaro il risultato finale
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Guardavo in televisione una puntata di un telefilm in cui il protagonista racconta ai figli adolescenti la storia di come ha conosciuto la loro mamma. In questa puntata veniva usata la metafora del bagaglio per indicare quell’insieme di ricordi, sbagli, rimorsi, dolori, sofferenze, delusioni che ognuno di noi si porta dietro.
Incontrando una persona speciale il protagonista trovava in lei un aiuto a sollevare e trasportare il suo bagaglio, ormai veramente pesante ed ingombrante. Lei, a sua volta, portava con sé una serie di bagagli che lui avrebbe dovuto aiutarla a trasportare.
La nostra vita è un viaggio meraviglioso ed incredibile, nonché irripetibile ed inimitabile: attraverseremo luoghi sconosciuti, faremo esperienze uniche ed entusiasmanti, conosceremo persone eccezionali, ma solo a patto di viaggiare leggeri.
Trascinarsi dietro una valigia carica di malumori, dispiaceri e delusioni, di tristezza, di errori, rimorsi e rimpianti, un carico di sensi di colpa e frustrazioni non solo non va bene per noi, ma non ha alcun senso.
Ancora più assurdo è poi pretendere che chi ci sta accanto ci dia una mano a trasportare questa valigia enorme e pesante, quasi come fosse una prova di amore e accettazione. In realtà chi ci ama veramente dovrebbe aiutarci a portare questo peso solo fino alla prossima discarica per gettare via tutto.
Anche se forse non ce ne rendiamo conto, spesso passiamo la vita a mettere in valigia cose inutili e spesso dannose, nessuna delle quali ci serve realmente, un po’ come quelle persone che prima di partire mettono in valigia di tutto per paura di quel che potrebbe loro mancare una volta in viaggio.
Dobbiamo per prima cosa diventare consapevoli che nel nostro percorso non abbiamo bisogno di molte cose, ma solamente di noi stessi. A volte siamo legati al passato e a quello che non è andato come avremmo voluto, ma proprio perché il passato è ormai immodificabile, non ci serve a nulla portarci dietro tutte le scorie, e la cosa saggia da fare è gettare via tutto e guardare avanti.
Ciò di cui abbiamo bisogno realmente è un carico di fiducia in noi stessi, speranza e ottimismo, volontà e determinazione,coraggio ed intraprendenza, curiosità, consapevolezza e amore. Provate a metterli nel vostro bagaglio e vi renderete conto che più ne metterete più spazio avrete.
Un bagaglio carico di sentimenti negativi pesa tantissimo, non serve praticamente a nulla e ci aiuta a rendere pesante anche la vita di chi ci sta vicino. Riempite invece il vostro bagaglio di gioia, perché la vita è un viaggio da fare leggeri.
Cosa si intende quando diciamo che l’amore dovrebbe essere incondizionato? Ha a che fare con i fatto che l’amore sia “cieco”? Condizionare vuol dire, secondo il dizionario Devoto-Oli, “Subordinare a determinate condizioni”, che sono “dati di fatto che costituiscono il presupposto necessario perché qualcosa abbai luogo”. Amare condizionatamente significa amare in cambio di presupposti determinati, quali possono essere un vantaggio, un utile, un guadagno.
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Se amo con lo scopo di essere felice, di sentirmi importante, di non sentirmi più solo, se amo per essere amato, per essere capito e compreso, per sentirmi visibile e di valore, per accrescere la mia autostima o qualsiasi altro motivo, pongo una condizione: “amo se, e solo se, questa condizione viene soddisfatta”. Se amo perché conto di ottenere la felicità, ma ciò non avviene, smetterò di amare; se amo per sentirmi importante, apprezzato e capito, ma non avviene niente di tutto questo, smetterò di amare; se amo per essere amato, per il mio bisogno di amore e non lo appago, allora smetterò di amare.
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Ma questo io non lo chiamo amore, questo altro non è che uno scambio “commerciale” tra due persone che barattano il proprio amore in cambio di qualcosa che gli manca e di cui hanno bisogno, questo è un surrogato scadente, che oggi chiamiamo amore.
Fromm scriveva, ma vale tutt’oggi, che “c’è poco da sorprendersi se i rapporti d’amore seguono lo stesso modello di ‘scambio’ che regola la vita pratica” riferendosi al prevalere del successo materiale come valore fondante della cultura. De Mello diceva: “Dove c’è amore non ci sono pretese, aspettative, dipendenza… Se ho bisogno di te per essere felice [sicuro, importante, amato], ti devo usare, manipolare… non ti posso lasciare libero”.
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Amare è una scelta che facciamo, a cui non possiamo porre condizioni perché immediatamente sceglieremmo di non amare ma di barattare, commerciare qualcosa per ottenerne un vantaggio. Aristotele sosteneva che l’amicizia (ma vale anche per l’amore) vera, perfetta, si ha solo quando due persone si amano per se stesse, per il loro intrinseco valore morale. Scegliamo di amare perché ci piace, perché ci fa stare bene, per un positivo “egoismo”, perché traiamo piacere dal solo fatto di amare, senza condizioni, e amiamo l’altro senza “se”, soltanto per quello che è e non è, per se stesso.
Il vero amore è quello incondizionato, quello che nasce dalla nostra scelta di amare un’altra persona per quel che lei è, per il solo piacere di amare.
Ho scritto che spesso basiamo le nostre relazioni sull’apparenza che ci colpisce dell’altra persona, magari si tratta dell’aspetto fisico, oppure dei gusti in fatto di abbigliamento, potrebbe essere un certo comportamento, oppure il carattere. Questi elementi hanno una cosa in comune: sono superficiali, sono effimeri.
Pensare di costruire una relazione con una persona perché ci piace una parte di lei che potrebbe cambiare nei prossimi anni è un modo facile per garantirci guai e difficoltà con il passare del tempo. E le statistiche sui divorzi ci dicono qualcosa in questo senso.
Il problema è che una relazione d’amore si basa su una reciproca scelta di amarsi indipendentemente da fattori effimeri come l’aspetto, i gusti personali oppure un certo tipo di comportamento. Se continuiamo a creare le relazioni basandoci su aspetti di questo tipo sarà difficile che durino.
Ho già spiegato come questi elementi siano frutto di un bisogno personale e quindi cosa ben differente dall’amore, ma la cosa importante è quindi capire a cosa guardare per scoprire se con la persona che stiamo conoscendo possiamo creare qualcosa di meraviglioso oppure no.
A primo impatto è normale che veniamo attratti da fattori superficiali, si tratta di un interesse però molto egocentrico, basato sulle nostre aspettative e sui nostri bisogni. Scegliere di amare, liberandoci da questi vincoli, comporta la volontà di andare oltre aspetti così superficiali e conoscere la persona giorno dopo giorno, scegliendo di amarla per ciò che è e non per come appare.
Alla base di una relazione solida deve esserci una profonda e reale condivisione di valori. I valori rappresentano le nostre linee guida, determinano come valutiamo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, filtrano la realtà, sono ciò che riteniamo più importante e prezioso. Se due persone condividono gli stessi valori hanno una base estremamente solida su cui costruire il loro amore.
Non si tratta di amare i valori dell’altro, si tratta di capire quali siano i presupposti perché l’amore dia vita ad una relazione che possa durare ed essere felice e meravigliosa. Anche i valori, sebbene molto limitatamente, subiscono variazioni nel tempo e anche loro appartengono a noi e non viceversa, ma si tratta di elementi cardine della nostra vita, ciò da cui dipendono in realtà comportamenti e scelte.
Se due persone si amano e condividono i medesimi valori vuol dire che hanno lo stesso “come” nel vivere la loro vita, nel realizzare i loro progetti, nel modo di affrontare le difficoltà e prendere le decisioni importanti.
Una relazione basata su valori differenti, o addirittura in contrasto, è destinata a durare poco, perché manca il presupposto di base che lega due persone nel loro cammino. Se volete sapere se la vostra relazione potrà sopportare le tempeste future, osservate se condividetegli stessi valori.
Probabilmente non prestiamo troppa attenzione alle parole e alle frasi che diciamo abitualmente, mentre dovremmo selezionarle bene poiché hanno un notevole impatto sui nostri pensieri e quindi sui nostri stati d’animo.
Usare sempre parole negative, piuttosto che un linguaggio offensivo o volgare, magari blasfemo, criticare o biasimare continuamente sono tutte forme di comunicazione che, divenute abitudine (per nulla positive), sono poi difficili da eliminare.
Ecco allora che vorrei darvi qualche suggerimento per migliorare il vocabolario personale se vi siete resi conto di aver preso abitudini non gradite.
Il primo passo è capire quali espressioni ormai sfuggono al vostro controllo e sono divenute automatiche, praticamente involontarie e istintive. Come sempre è la consapevolezza a darci una grande mano.
Poi fate un elenco di parole o espressioni positive che invece vorreste usare più spesso, frasi ottimiste o espressioni cortesi, che potrebbero tornarvi utili nel parlare con gli altri.
Trovate un segnale di controllo, qualcosa che vi ricordi di non cadere nell’abitudine del cattivo linguaggio (come un braccialetto, un oggetto in tasca, oppure una persona che vi faccia un cenno), per ricordarvi di sostituire le espressioni negative con quelle positive che vi siete scelti.
Un buon deterrente potrebbe essere quello di pagare una penitenza (soldi!) ogni volta che cadete nella vecchia abitudine… dopo qualche risparmio perso la cosa potrebbe assumere un maggior valore e divenire più facile.
Una capacità da acquisire è quella di riflettere di più prima di parlare; potreste ad esempio prendere l’abitudine di contare sino a 10 prima di rispondere o dire qualcosa, oppure fare il gioco del silenzio e dedicare alcuni momenti della giornata a stare zitti ed ascoltare. Abituarsi a tacere, anche quando avreste voglia di parlare, aiuta a migliorare l’auto-controllo.
Ricapitolando:
1.Elencate le espressioni che volete eliminare 2.Elencate le espressioni che vorreste abituarvi ad usare 3.Stabilite qualcosa che vi ricordi di sostituire le prima con le seconde 4.Trovate una “punizione” per quando ricadete nella vecchia abitudine 5.Imparate a parlare dopo aver pensato bene cosa dire
L’ansia da prestazione nasce ogni qual volta siamo preoccupati o impauriti per il risultato di una nostra performance, che sia sportiva, professionale, erotica o intellettuale. Il problema sta nel crearci pensieri di fallimento nella nostra mente.
L’ansia potrebbe essere utile perché ci avverte di qualcosa di potenzialmente pericoloso, e una volta ascoltata e compresa, dovrebbe lasciarci liberi di agire. Spesso invece blocca e fa si che la nostra performance, come temevamo, effettivamente sia scadente.
La cosa vi riguarda? Benone, se non altro perché ho qualche consiglio per imparare a gestirla e superarla per poterci gustare il risultato finale!
Prima di tutto dobbiamo smettere di pensare al risultato e concentrarci sulla prestazione, ovvero non pensare cosa devo ottenere, ma a come devo agire. Questo vuol dire concentrarsi su quello che stiamo facendo, e che è sotto il nostro controllo.
Importante è stabilire chiaramente che cosa dobbiamo fare, avere cioè un elenco di azioni o pensieri da mettere in pratica e degli obiettivi legati alla performance. Questo vuol dire stabilire come realizzeremo ogni singola attività.
Un modo per migliorare è concentrici su come abbiamo agito. Diamo un voto alla nostra performance e stabiliamo come ottenere un punto in più la prossima volta. Questo ci concentra sull’azione e libera dall’ansia.
Poniamo che debba partecipare ad una maratona. Non penso a vincere o perdere, ma mi concentro sulla corsa. Devo avere obiettivi performance, ad esempio mantenere un certo ritmo del respiro, mantenere una certa andatura e via dicendo. Alla fine valuto la mia prestazione e valuto come migliorare la prossima volta. Se mi sono valutato sul respiro da 6, cosa dovrei fare per ottenere un 7?
Ricapitolando:
1.Focalizziamoci sul processo e non sul risultato
2.Stabiliamo degli obiettivi di performance
3.Valutiamo la performance e stabilire come migliorarla la prossima volta
Il segreto è concentrarci su cosa stiamo facendo e come lo stiamo facendo, e non su cosa vogliamo ottenere alla fine. Così facendo sostituiamo l’ansia con la concentrazione e l’azione.
Sono convinto che l’amore è una scelta e sono altresì persuaso che questa scelta sia totalmente libera, per ognuno di noi. Sono giunto a definire cosa vuol dire amare: “dare incondizionatamente” , senza pretese o soddisfazioni di alcun tipo.
Il presupposto per una relazione solida e felice sta nella scelta reciproca dei partner di amarsi, senza pretendere, anche se appare paradossale, di essere amati. Amare comporta volontà, scelta, dedizione, impegno e perseveranza.
Spesso invece le relazioni partono dai bisogni personali, cerchiamo “l’anima gemella” come si cerca un’auto oppure una casa. Oggi l’attenzione è rivolta a ciò che stiamo cercando, alle caratteristiche superficiali che vogliamo trovare nell’altro.
Pretendiamo che la persona giusta abbia una certa altezza (così ci “vediamo” bene insieme), un certo colore degli occhi, un certo modo di comportarsi (abbiamo bisogno di romanticismo o avventura), pretendiamo che abbia certi gusti (chi si veste in un certo modo va bene), certe idee, un certo carattere, un certo modo di vestire.
Abbiamo imparato, sollecitati anche dai media, a stilare un elenco delle nostre pretese per essere sicuri di trovare la “persona giusta per noi”, convinti che se risponde a tutte quelle caratteristiche sarà in grado di darci ciò di cui abbiamo bisogno e tutto sarà perfetto. Ma le apparenze ingannano!
Il problema è proprio qui. Ho già scritto ddella differenza tra amore e bisogno e di come questo sia una pericolosa trappola per ogni relazione. Se scelgo le persone in funzione della loro capacità di soddisfarmi, in ogni senso, allora li penso in funzione della loro “utilità”.
Fintanto che sono in grado di darmi ciò di cui ho bisogno, finché continuano a comportarsi come piace a me, a pensare le cose che penso io, ad avere l’aspetto che gradisco, tutto va bene. Ma quando le persone cambiano, quando le caratteristiche della mia lista vengono meno negli altri, ecco che il mio interesse per loro svanisce e – penso – svanisce anche per l’amore. Ma l’amore allora non c’è mai stato.
Se basiamo la nostra scelta su noi stessi, se selezioniamo gli altri in base a fattori superficiali, come quelli che ho citato come esempio, se valutiamo gli altri in funzione della loro capacità di farci stare bene, non siamo in grado di costruire nessuna relazione sana e positiva, perché non stiamo basando tutto sull’amore ma sull’egoismo.
Amare qualcuno comporta la scoperta continua della persona che è. Non possiamo mai dire di conoscere veramente una persona in modo definitivo, la conoscenza degli altri è un processo infinito.
Per amare gli altri per quello che sono e divengono giorno dopo giorno dobbiamo andare oltre le apparenza, perché l’essenziale è invisibile all’occhio.
Tutti quanti abbiamo bisogno di imparare, tutti possiamo trarre vantaggio dai consigli di persone esperte o semplicemente meno coinvolte nelle questioni in cui noi ci dobbiamo cimentare, ma non solo. Spesso i consigli buoni possono arrivare anche da chi, a nostro parere, non ha le carte in regola per fornire certi suggerimenti.
Capita spesso che siamo dubbiosi sull’accettare consigli da persone che per prima non li mettono in pratica, oppure che non hanno titoli che comprovino la loro competenza in materia, oppure semplicemente non godono della nostra stima.
Ma le buone idee non sono appannaggio solo di coloro che hanno esperienza o riconoscimenti, per cui ecco qualche consiglio per imparare qualcosa da tutti.
La regola di base è separare il consiglio dal consigliere: intendo dire di non giudicare un’idea da chi la ha avuta. Come detto potremmo basarci così su un pregiudizio che ci impedisce di sfruttare un buon suggerimento oppure non dargli il giusto valore perché nato da una persona che mostra di essere incoerente
Analizza sempre, e in modo critico, quanto ti viene suggerito. Questo vuol dire di non scartare un’idea a priori, come detto, e neanche di prendere per oro colato quello che ci viene detto. Ogni soluzione potrebbe essere buona per qualcuno ma non per altri, quindi valutiamo sempre i consigli in relazione alla nostra situazione attuale.
Non badare alla forma in cui viene posto il consiglio. Questo perché a volte può suonare come una critica, un rimprovero o una predica. La cosa che ci interessa è l’idea, non la forma, più o meno condivisa, in cui ci viene presentata.
Non reagire ai suggerimenti in modo affrettato o aggressivo. Potrebbe infatti succedere che un suggerimento ci sembri un attacco personale. Anche se così fosse evitiamo reazioni immediate, pensiamoci con calma e analizziamo l’idea in quanto tale. Una reazione aggressiva potrebbe farci provare ostilità anche verso il suggerimento, magari utile.
Ricapitolando:
1.Non giudichiamo il consiglio dal consigliere 2.Siamo sempre critici su quel che ci suggeriscono 3.Non dobbiamo badare troppo alla forma delle idee 4.Evitiamo reazioni affrettate e riflettiamoci sopra con calma
Ho già scritto di come spesso si confonda il bisogno con l’amore (ti invito a leggere l’articolo prima di proseguire perché ti sia più chiaro cosa voglio dire). Mentre l’amore è libertà,scelta, crescita, il bisogno porta dipendenza, attaccamento, paura, diventa una prigione che ci imponiamo e dalla quale poi fatichiamo ad uscire.
Il bisogno diviene così una pericolosa trappola, soprattutto perché non ce ne accorgiamo e crediamo sia una situazione normale, un attaccamento naturale agli altri. Purtroppo non è così, e il “bisogno” nasconde quattro insidie principali.
Per prima cosa crea dipendenza, ci lega ad una persona in modo a volte morboso, comunque subordinato, e la dipendenza, col tempo, produce assuefazione, così da costringerci a non poter fare più a meno degli altri. Qualsiasi tentativo di staccarci dalla fonte della nostra assuefazione produce dolore.
La dipendenza si ricollega anche alla paura, che sta alla base della sofferenza. Non appena abbiamo creato una relazione di dipendenza siamo destinati a soffrire a causa delle scelte degli altri. Non siamo liberi, abbiamo bisogno di loro e quando questi non corrispondono alle nostre esigenze soffriamo.
Abbiamo paura di perdere le persone dalle quali dipendiamo, o che cambino e non siano più gli stessi. Quando subentra la paura iniziamo ad agire in qualsiasi modo possa, ai nostri occhi, proteggerci dalla perdita: diventiamo possessivi, aggressivi, gelosi, facciamo di tutto per mantenere vivo il rapporto di dipendenza del quale, ormai, non possiamo fare a meno.
Dal bisogno dipende il nostro egoismo, perché quando dobbiamo soddisfare a tutti i costi un’esigenza, iniziamo a pensare solo a noi stessi. Tutto ruota attorno a noi, gli altri diventano la fonte attraverso la quale possiamo soddisfare i nostri bisogni. Pretendiamo che vivano la loro vita in un certo modo, quello che noi riteniamo “giusto”, quello in cui possono soddisfare meglio i nostri bisogni, e non vi è nulla di più egoistico che “pretendere che qualcuno viva la propria vita come noi riteniamo opportuno”
E quando subentra l’egoismo in una relazione le persone non sono altro che “cose” dalle quali trarre l’appagamento dei nostri bisogni. Iniziamo a manipolare le persone perché restino vicino a noi, iniziamo a sedurle per trattenerle, cerchiamo di evitare che cambino. Vediamo gli altri in funzione della loro capacità di soddisfare i nostri bisogni. Se riescono, bene, altrimenti perdiamo l’interesse nei loro confronti.
Se dipendiamo dalle persone che riteniamo importanti nella nostra vita ne abbiamo bisogno, soffriamo se le perdiamo, siamo egoisti nel pensare al nostro dolore e alla nostra solitudine, abbiamo paura che ci lascino e cerchiamo di legarle a noi.
Non siamo liberi emotivamente, e se non siamo liberi non possiamo amare.
Siamo tutti convinti che il comportamento degli altri possa farci soffrire, procurarci delusione, tristezza, dolore, e siamo altrettanto certi che il nostro comportamento può avere lo stesso effetto, facendo soffrire persone che magari amiamo. Ma è vero?
La sofferenzapsicologica nasce dalla paura. Soffro per le cose che ho paura di perdere o non riuscire ad ottenere. La paura, a sua volta, deriva dal fatto che io credo di avere bisogno di quelle cose. Se ne ho bisogno, se devo necessariamente averle, avrò paura di perderle.
Soffro se una persona non mi ama perché penso di aver bisogno del suo amore, senza non sarò felice, quindi sto male. Se un amico mi delude soffro perché mi aspettavo qualcosa che ritenevo importante e che ora non avrò più, che l’altro mi ha negato.
Il problema è che la sofferenza non sta nel comportamento delle persone, ma solo nel significato che noi attribuiamo a questo comportamento. Ignorando questo continuiamo a soffrire a causa dei loro comportamenti perché non ci accorgiamo che tutto, invece, dipende da come noi li interpretiamo.
Nessuno soffre per qualcosa che non ritiene importante, ma solo per cose a cui dà un certo valore, per cose che ritiene necessarie. Spesso le relazioni fanno soffrire perché sono relazioni basate sul bisogno reciproco, procurano dipendenza prima, ed assuefazione poi. Credendo che siano necessarie per avere gioia e felicità, perderle ci procura dolore.
Allo stesso modo non possiamo far soffrire qualcuno, poiché non sono le nostre parole o i nostri comportamenti la causa del suo dolore, ma il senso che gli viene attribuito. La sofferenza, così come la felicità, è una nostra responsabilità.
Pensate all’ultima volta che avete sofferto per un comportamento altrui e chiedetevi che valore aveva per voi quella persona. Ne avevate bisogno? Era per voi fondamentale o estremamente importante? Che ruolo aveva nella vostra vita? Nella vostra felicità?
L’amore non procura sofferenza. Questa è la conclusione a cui sono giunto; l’amore non procura dolore, perché non esiste bisogno nell’amore, non c’è attaccamento o dipendenza, non c’è paura. Soffriamo per quello da cui siamo dipendenti, per le cose che sono diventate come “droghe” a cui non pensiamo di poter rinunciare.
Il comportamento degli altri diventa così la “dose” di cui abbiamo bisogno. Possiamo scegliere di liberarci di queste dipendenze e amare gli altri invece che esserne assuefatti. Dobbiamo capire che non dipendiamo da loro e che loro non dipendono da noi. Allora ci accorgeremo che non possono farci soffrire, e noi non possiamo far soffrire loro.
Spesso tendiamo a tenere separati il coraggio dalla paura, quasi che le due cose si escludessero a vicenda, mentre in realtà non può esserci coraggio senza paura. Il coraggio consiste nel saper affrontare la paura dopo averla incontrata e compresa.
Le cause della paura possono essere le più disparate, potremmo ad esempio non sapere bene cosa ci aspetta in una situazione, oppure temere di non essere all’altezza, potrebbe anche trattarsi di scarsa abitudine ad affrontarla (allora dovremmo anche allenare il nostro coraggio). Qualunque sia la fonte da cui derivano i nostri timori, ecco qualche idea pratica per fronteggiarli meglio.
Per prima cosa dobbiamo capire: Madame Curie diceva che “non vi è nulla di cui aver paura, c’è solo da capire”, ed aveva ragione. Quando affrontiamo qualcosa che ci spaventa, dovremmo prima tentare di comprendere quanto più possibile di cosa si tratta.
Una cosa fondamentale che dobbiamo fare è smettere di etichettare situazioni e persone; ciò vuol dire evitare di dare giudizi affrettati. Spesso temiamo un barbone non per la persona in sé, ma perché è un “barbone”, con tutti i pregiudizi che derivano da questa etichetta. Evitare di giudicare superficialmente ci aiuta a capire e a superare le paure iniziali.
Mettiamoci bene in testa che ad aver paura non vi è nulla di male: la paura è un emozione utilissima a metterci in guardia da un potenziale pericolo. Il problema non è mai la paura, ma l’esserne dominati. Perciò convinciamoci che la paura può essere un’alleata estremamente utile.
Dobbiamo abituarci a fronteggiare la paura! Spesso il problema è che evitiamo le cose che temiamo ed in questo modo ingigantiamo le nostre insicurezze: facciamo di un sasso un macigno. Più lasciamo passare tempo, peggio diventa. La soluzione migliore è affrontare subito ciò che temiamo, analizzarlo, soppesare i rischi e agire senza rimandare ulteriormente qualcosa che possiamo fare subito. Visto che le abitudini ci condizionano, meglio averne di costruttive.
Ricapitolando:
1.Cerchiamo sempre di capire 2.Evitiamo i giudizi superficiali 3.Accogliamo la paura come un’alleata preziosa 4.Abituiamoci ad affrontarla appena si presenta
A sentire la parola coraggio viene forse in mente il comportamento eroico di cavalieri che indossano un’armatura scintillante oppure impegnati in eroiche imprese volte a salvare una principessa. O magari pensiamo ai protagonisti di storie cinematografiche ambientate in tempi remoti o in mondi fantastici. Tornando ai nostri giorni, la mente va probabilmente a quanti rischiano la loro vita per salvare gli altri, come accade a pompieri o volontari che prestano soccorso all’occorrenza.
In effetti il coraggio non è un’esclusiva di pochi, né un valore rilegato alle storie della nostra infanzia, ma è un modo di vivere, è la scelta di affrontare un pericolo, consapevoli dei rischi, ma spinti dalla volontà di raggiungere un obiettivo preciso.
Il coraggio è fondamentale anche nella nostra quotidiana realtà, ed ecco qualche idea per allenare questa nostra potenzialità.
Inizia a parlare in pubblico riguardo ad argomenti impopolari e poco condivisi. Affronti così la paura del dissenso, del rifiuto.
Inizia a fare domande scomode, che puntano a capire e comprendere, senza accontentarti ma con l’intento di capire come stanno realmente le cose. Anche chiarire i sentimenti in una relazione, affrontare un chiarimento professionale sono forme di coraggio.
Ricerca storie e racconti di altre persone che hanno compiuto atti coraggiosi: comprendi la realtà di questi esempi e trai spunto per il tuo modo di agire.
Ripensa ad una tua paura, analizza il motivo per il quale la provi e stabilisci come potresti affrontarla. Il coraggio è legato alla paura, non ne è il contrario.
Proteggi una persona che non riesce a farlo da sola. Potrebbe essere un amico umiliato, una persona cara offesa o attaccata verbalmente, schierati in suo favore.
Abituati ad affrontare piccole paure quotidiane. Essere coraggiosi è un’abitudine che deve diventarci familiare. Ad esempio, dici quel che pensi alle persone a te care anche se temi la loro reazione, frequenta una persona positiva ma allontanata dagli altri, soccorri qualcuno che altri non soccorrono.
Ricapitolando:
1.Affronta argomenti impopolari in pubblico 2.Fa’ domande scomode che facciano emergere la verità 3.Cerca storie ed esempi di coraggio 4.Analizza una tua paura ed affrontala 5.Proteggi una persona che non riesce a difendersi da sola 6.Abituati ad agire coraggiosamente
Parlare di leadership è ormai un concetto di moda, ma soprattutto un concetto che ha una notevole serie di opinioni differenti, a volte molto lontane tra loro, ognuna caratterizzata da presupposti e principi particolari, sebbene spesso comuni.
Il dizionario, per esempio, la definisce come “la posizione di preminenza con funzione di guida in uno schieramento politico o culturale, in un’attività o in un impresa, dove il leader è il capo, la guida di tale schieramento”.
Daniel Goleman, padre del concetto di intelligenza emotiva, la definisce come “l’abilità di un leader nel gestire il proprio stato d’animo e quello altrui, influenzando i risultati ed il successo del gruppo”.
John Maxwell definisce la leadership come “l’insieme delle eccezionali qualità del leader nella misura in cui queste gli vengono riconosciute dai seguaci”.
Luca Stanchieri la definisce come “frutto del riconoscimento del leader da parte dei follower ed in relazione al giudizio dei clienti, con il compito di incrementare il benessere percepito da coloro che ne entrano in relazione”.
Tutti questi approcci affrontano la leadership sotto aspetti e profili differenti, spesso connessi ad un contesto professionale ma non solo. La mia idea di leadership invece prende il via da un modo di vivere.
La leadership è la capacità di mostrare le direzione, aiutare a crescere e servire gli altri perché ognuno trovi la propria strada. Il leader sviluppa capacità, qualità e competenze attraverso cui guidare innanzi tutto se stesso e poi gli altri.
La leadership deve essere riconosciuta dagli altri, sono coloro che seguono il leader a farlo tale, non dipende dal ruolo o dalla posizione gerarchica, né dal denaro o dal potere sociale o politico. La leadership è una capacità che tutti noi possediamo e possiamo sviluppare e allenare giorno dopo giorno.
La leadership è un’insieme di qualità personali e relazionali che consentono al leader, tale per scelta degli altri, di guidarli e aiutarli a crescere e migliorare, senza egoismi o interesse, ma con lo scopo prioritario di contribuire alle vite degli altri, in qualsiasi contesto.
Il leader è una persona a cui gli altri guardano per conoscere la strada, una guida, un esempio. Ho anche sottolineato come non coincida necessariamente con una posizione di comando ufficiale, con una gerarchia imposta. Questo perché il leader è tale in quanto viene riconosciuto tale dagli altri. Ma chi è leader oggi?
Penso sia una domanda importante per mettere bene in chiaro come il concetto di leadership, che ritengo ottimale, sia applicabile a tutti i contesti sociali, in tutte le situazioni e riguarda perciò leader di ogni genere. Quando parlo di leader, io parlo di figure di riferimento per le persone che gli sono attorno, per coloro che hanno scelto di seguirlo.
Il leader è il professore che insegna alle elementari, che si impegna per educare, e non solo istruire, i suoi alunni, che si dedica con passione alla loro crescita; il leader è il docente universitario, che guida i suoi studenti perché tirino fuori il meglio di sé, diventino professionisti competenti e persone positive.
È leader la mamma che cura la propria famiglia, che si occupa di allevare e crescere i figli, di creare un clima di amore e crescita in casa, è leader il sindaco che lavora con impegno per migliorare concretamente la vita dei suoi cittadini, che si dedica al loro interesse prima ancora che al suo tornaconto personale.
Leader è chi coordina i soccorsi in caso di un incidente stradale, che per primo si rende conto dell’accaduto e spontaneamente guida gli altri per assistere i feriti e metterli in sicurezza, leader è chi, nella propria impresa, si impegna a dare il massimo, aiuta gli altri a fare altrettanto ed è esempio di professionalità e correttezza.
Potrei continuare con un elenco senza fine, inserendo persone che neanche si ritengono leader ma che lo sono a tutti gli effetti. Ciò che conta è la leadership come riconoscimento degli altri, essere leader vuol dire avere qualcuno che ci segue e guarda a noi per trovare la strada.
Nelle più semplici e comuni situazioni tutti possiamo essere leader, non serve avere un’investitura ufficiale, ma sapere quale direzione prendere e aiutare gli altri, sostenendoli nel percorso, a fare altrettanto, con dedizione e sincero interesse.
Tutti siamo leader potenziali, e prima o poi avremo l’occasione di tradurre in atto questa nostra possibilità. Sarà allora che verremo chiamati ad agire, a fare, ad essere leader.
La gelosia, simbolo di amore ed interesse sincero e profondo, fuoco ardente che brucia nell’animo di chi più ama qualcuno, sentimento naturale, entro certi limiti, e benefico per la relazione amorosa. Sarà vero? Amore e gelosia possono convivere?
La gelosia, come dice il dizionario, è un “ansioso tormento provocato dal timore di perdere la persona amata ad opera di altri”.La gelosia nasce, dunque, dalla paura, non già, come si crede di solito, dall’amore.
De Mello diceva che “ in ultima analisi, esistono solo due cose: l’amore e la paura”, volendo indicare come tutto ciò che è bene deriva dall’amore, e tutto ciò che invece è male deriva dalla paura. La gelosia, come detto, da quest’ultima.
Siamo gelosi delle persone perché temiamo di perderle, perché siamo abituati a considerarle una cosa personale (“la mia ragazza” o “mio marito”, “il mio amico”, “mio figlio”) e ragioniamo, anche senza esserne consapevoli, come se effettivamente ci appartenessero. Questo, però, non è amore!
In realtà nessuna persona può appartenerci, tutti siamo egualmente liberi. Creiamo relazioni affettive che dovrebbero nascere in virtù della nostra scelta di amare e non come conseguenza di una dipendenza dagli altri. La gelosia nasce dalla paura di perdere una persona perché questa è vista come fonte di soddisfazione di un proprio bisogno.
Se penso che la mia ragazza possa rendermi felice, senza di lei sarei invece infelice; ne ho bisogno per avere la “mia” felicità, e se dovesse lasciarmi la perderei, la felicità. La paura di perdere l’amore di una persona nasce quando quell’amore è un bisogno che abbiamo. La gelosia nasce dal possesso che è la condizione per la quale posso utilizzare qualcosa per la mia personale soddisfazione. Gelosia e amore sono incompatibili.
Essere gelosi presuppone il vedere gli altri in funzione della loro capacità di soddisfare i nostri bisogni, e poiché diventiamo dipendenti da questa soddisfazione, abbiamo paura che qualcuno possa privarci di coloro che ce la concedono. La gelosia non ha nulla a che vedere con l’amore.
Se io amo, se scelgo di amare qualcuno, non pretendo nulla, non mi attacco, non divento dipendente, non ho bisogno di quella persona. Se amo, dunque, non ho paura di perdere qualcosa. L’altro è libero di amarmi, ma io non pretendo il suo amore, e se non pretendo qualcosa, non ho timore di perderla, non ho paura, non sono geloso.
L’amore è libertà, la gelosia è una prigione senza sbarre. Amare significa scegliere ed essere indipendenti, essere gelosi significa aver bisogno ed essere prigionieri. Seami veramente, non sei geloso!
Oggi si sente spesso parlare di leadership: quando ci riferiamo ad importanti esponenti politici, allenatori sportivi che ottengono risultati eccellenti, grandi imprenditori, persone dotate di un carisma naturale, uomini in grado di incidere nel loro contesto e cambiarlo.
Cercando in rete c’è un gran proliferare di corsi sulla leadership, corsi che si prefiggono di aiutare a sviluppare le proprie doti di leader o insegnano come si guidano altre persone. Nel mondo del lavoro si cerca con maggiore insistenza chi possiede “spiccate doti relazionali e di leadership”, e spesso non si ha ben chiaro neanche cosa stiano cercando queste aziende esattamente.
Ho avuto modo di lavorare in posizioni che richiedevano non solo buone doti relazionali e di leadership, ma esigevano di assumere il ruolo di leader e guidare un team, coordinarlo, motivarlo, aiutarlo a crescere e sviluppare il suo potenziale.
Quello che ho capito in questi anni, anche grazie alle molte ricerche e letture, all’interesse e alla forte curiosità in questo settore, è che il leader non è un ruolo, non si tratta di indossare un vestito o svolgere alcune funzioni. Il leader è un modo di essere.
Quando parlo di leader mi riferisco a quella persona che si trova in una posizione a cui gli altri guardano per conoscere la strada, leader è colui che guida altre persone, le sostiene e incoraggia, ma soprattutto le aiuta a trovare le loro strade e a tirare fuori il meglio di se stesse.
Troppo spesso oggi si chiama leader semplicemente chi ricopre una posizione di comando, chi ha ricevuto il potere di decidere e dirigere, e per questo la figura si è legata strettamente al mondo professionale, quasi confinata in questo ambito. Ma leader è colui a cui gli altri guardano per conoscere la strada, il che significa che la leadership non è una posizione stabilita da un organigramma.
Al di là delle finezze semantiche, la cosa che mi preme esprimere è che per essere leader bisogna sviluppare prima di tutto la qualità interiori, esprimere il meglio di sé, non essere perfetti, ma essere l’esempio perfetto di quel che si dice. Il leader guida prima di tutto se stesso, e solo allora è in grado di guidare anche altre persone. Nessuno può mostrare una strada se non l’ha già percorsa.
Utilizzare le tecniche di leadership è possibile tutti; in molti le apprendono ed iniziano a praticarla dopo un semplice fine settimana di addestramento, ma essere leader è diversa cosa dal fare i leader.
Il leader usa le tecniche come strumento al servizio delle sue qualità, della sua visione e come supporto alla sua guida; il primo passo verso la leadership è comprendere che tutti possiamo essere leader e capire che essere leader è un modo di vivere.
A volte può capitare di trovarsi a parlare con amici o colleghi, oppure di partecipare a qualche riunione di lavoro o famigliare e lasciarsi trasportare dalla discussione finendo con il litigare oppure irritarsi o divenire aggressivi.
Può succedere perché vogliamo difendere le nostre opinioni, oppure ci sentiamo attaccati per primi, perché ci sembra che gli altri ci prendano in giro o semplicemente perché siamo convinti di avere ragione.
Qualunque sia il motivo, ecco qualche idea per mantenere la calma e mantenere serena e pacifica qualsiasi discussione:
Per prima cosa dovremmo ricordarci di mantenere la calma. Possiamo farlo scrivendolo su un foglio di carta visibile a tutti, oppure legando qualcosa al braccio che lo ricordi, con fantasia potremmo stampare una maglietta con scritto su “restiamo calmi!”
Una cosa veramente utile è quella di rimanere fisicamente calmi e rilassati: possiamo per esempio utilizzare delle poltrone comode dove parlare, oppure respirare lentamente mentre ascoltiamo gli altri.
Estremamente utile è il contatto fisico. Discutendo animatamente abbiamo la tendenza ad allontanarci, come per creare anche fisicamente la disposizione allo scontro. Mettere una mano sulla spalla, oppure tenere il braccio dell’altra persona potrebbero essere buoni modi, oppure stringersi la mano.
Un altro consiglio è quello di sorridere durante un incontro. Sorridere distende i nervi, rasserena, dispone al dialogo e ci ricorda di mantenere la calma. Non dobbiamo ridere, ma mantenere un’espressione serena e distesa.
Ricapitolando:
1.Essere consapevoli di voler mantenere la calma 2.Scegliere una postura rilassata per parlare 3.Mantenere un contatto fisico 4.Sorridere
Abbiamo delle dipendenze? Non parlo ovviamente di quelle gravi e patologiche, ma di quelle cose che non controlliamo più, delle quali ormai non riusciamo a fare a meno. Sebbene siano spesso poco nocive, ma non sempre, assumono i contorni di vere e proprie assuefazioni e ci rendono “schiavi”.
Penso a chi non può fare a meno di usare internet, a chi non riesce a controllare il tempo che passa davanti al televisore o chi non riesce a fare a meno di fumare. Se siete diventati dipendenti da qualche cosa (un buon test è verificare se riuscite a farne a meno per un mese intero) ecco qualche idea per iniziare a disintossicarvi.
Per prima cosa bisogna che vi rendiate conto di essere dipendenti e assuefatti a qualcosa e decidere di rivolere il controllo. La consapevolezza è determinante per potervi liberare.
Un buon approccio è quello di fare un elenco di attività piacevoli, e possibilmente salutari, che potreste fare in alternativa a quella da cui volete disintossicarvi. Nel caso del fumo, ad esempio, cantare, correre, leggere in biblioteca, fare un giro in un centro commerciale (è vietato fumare dentro).
L’importante è iniziare gradualmente, quindi cominciate con il ridurre la vostra “dose” quotidiana, Per esempio mezz’ora di televisione alla volta oppure solo mezza sigaretta.
Gradualmente significa anche che dovete ridurre almeno ogni settimana le volte in cui vi concedete la vostra “dose controllata”, per esempio passando da 5 mezze ore di televisione al giorno questa settimana a sole 4 mezze ore la prossima, oppure dimezzando in un mese il numero delle sigarette che fumate.
Ogni volta che rispettate le vostre nuove regole, trovate anche il modo di premiare i vostri successi (ovviamente senza crearvi nuove dipendenze!!).
Una osa importante è avere un piano di emergenza, ovvero una soluzione drastica da adottare se non riuscite a rispettare il vostro programma. Ad esempio staccare l’antenna del televisore, oppure staccare il cavo di corrente dopo aver superato la mezz’ora stabilita, buttare le sigarette nella spazzatura.
L’importante è che vi rendiate conto come questi piccoli passi siano la dimostrazione che siete voi ad avere il controllo e non la televisione o le sigarette.
Ricapitolando:
1.Prendete consapevolezza della vostra dipendenza 2.Trovate attività con cui sostituirla gradualmente 3.Limitate il tempo 4.Limitate la frequenza 5.Premiate i vostri successi 6.Programmate un piano di emergenza in caso perdiate nuovamente il controllo
Forse rientrate nella categoria di quelli che fanno una lavoro ben retribuito e molto appagante, o forse no, e non siete soddisfatti del vostro lavoro, magari vi pagano una miseria, oppure, peggio ancora, non avete neanche un lavoro.
Se già vi state dimenando con curricula e lettere di presentazione, con siti di offerte e candidature spontanee di ogni tipo, credo sia utile qualche consiglio per rendere il vostro curriculum interessante, almeno perché venga letto realmente!
Prima di tutto il curriculum deve essere chiaro. Usate il formato europeo, oppure realizzatelo graficamente a modo vostro. L’importante è che sia facile da leggere, che le informazioni rilevanti risaltino agli occhi, magari evidenziate con un grassetto.
Iniziate con i dati personali, completi e chiari, quindi continuate con le informazioni relative alla vostra formazione. In questo caso preferite l’ordine cronologico, partendo dalla fine, mettendo in evidenza titoli e corsi inerenti con la mansione che cercate.
Le esperienze professionali, quelle pertinenti con la vostra candidatura, devono essere anche approfondite, mettendo in evidenza cosa avete acquisito che vi tornerà utile se sarete assunti. Per le altre siate soprattutto chiari e brevi.
Nell’affrontare passioni e abilità andate a descrivere tutto quello che è pertinente con il nuovo lavoro: si tratti di un’attività sportiva oppure di un’associazione culturale, mette in evidenza cosa avete imparato, che qualità avete sviluppato grazie ad essa.
Partite sempre dal capire che cosa cerchi il potenziale datore di lavoro, di che qualità ha bisogno, e sottolineate come le avete acquisite e come avete dato prova di possederle.
Ricapitolando:
1.Siate chiari e precisi 2.Evidenziate i dati rilevanti in ogni settore 3.Sottolineate la formazione e l’esperienza lavorativa coerente con la vostra domanda di lavoro 4.Elencate le qualità che possedete e dimostrate dove le avete messe in campo sin ora 5.Pensate a cosa interessa al datore di lavoro e partite da lì
Scopo del curriculum è attirare l’attenzione, mostrare la vostra idoneità al posto di lavoro e, soprattutto, farvi ricontattare per un colloquio.
L’arte della persuasione, riuscire ad essere convincenti, farebbe sicuramente comodo a tutti, e chiunque di noi qualche volta avrebbe voluto sapere indurre gli altri a seguire le proprie idee.
Essere persuasivi vuol dire, in poche parole, saper motivare qualcuno a fare o pensare quel che vogliamo noi, ed aggiungo, senza manipolare la sua volontà. La differenza è nettissima: motivando, l’altro vuole ciò che voglio io, manipolando invece uso una forzatura alla sua volontà.
I consigli che vi propongo vi aiuteranno a motivare gli altri ma non a manipolarli: se le vostre idee sono buone vi suggerisco come presentarle nel modo giusto:
Innanzitutto ricordate la frase di Lao Tse: “Uno che insista troppo a ribattere le proprie opinioni troverà ben pochi che siano d’accordo con lui” quindi non insistete.
Evitate di dare ordini o consigli che appaiano imposizioni: non servono a molto perché a noi piace scegliere, non essere convinti. Usate invece bene le domande(come già spiegato altrove) e fate riflettere. Chiedete spiegazioni approfondite per far risaltare incongruenze nelle decisioni, chiedete le possibili conseguenze, chiedete che vantaggi si perdono agendo in un certo modo.
Non criticate mai, e sottolineo MAI, le idee e le scelte altrui, anche se non le condividete. Difficilmente accettiamo consigli da chi ci “attacca”. Invece cercate di capire le posizioni e le motivazioni altrui, solo per comprendere, mostrandovi alleati.
Scoprite che vantaggi avrebbero gli altri nel seguire le vostre idee: vantaggi concreti, tangibili praticamente e limitatevi a dimostrarli e suggerirli senza troppo insistere.
Ricapitolando:
1.Non insistete 2.Non date consigli o pareri che sembrino ordini 3.Usate le domande, fate riflettere 4.Non criticate o attaccate mai idee e scelte 5.Cercate sempre di comprendere, alleatevi 6.Individuate i vantaggi e suggeriteli
Tutto passa attraverso la vostra buona fede ed il reale interesse che nutrite verso coloro a cui vorreste essere utili e buoni consiglieri.
Spesso si confonde la solitudine con l’essere isolati, si scambia l’arte di stare bene con se stessi, fondamentale per la nostra felicità, con la privazione degli altri, l’isolamento sociale.
Imparare a stare bene con se stessi vuol dire imparare a conoscersi e amarsi. Spesso le relazioni di coppia, le amicizia e le conquiste materiali sono vere e proprie fughe, distrazioni dalla solitudine interiore.
Ma è inutile fuggire, prima o poi dobbiamo confrontarci con la solitudine, dobbiamo imparare a stare bene con la persona con cui non possiamo fare a meno di rimanere soli: noi stessi.
Non si tratta di isolarsi, ma di capire che il primo ingrediente di qualsiasi relazione sana è amare la propria solitudine. Ecco allora che ho pensato a qualche idea per migliorare questa vitale relazione:
la prima cosa da fare è dedicare alcuni momenti a stare da soli, senza nessuno a farci compagnia, né avendo distrazioni come televisori o cellulari, internet o lettori musicali.
Questo spazio riservato a noi stessi dobbiamo dedicarlo a rilassarci, a riflettere sulle nostre scelte, sul nostro comportamento, sui nostri sogni, i nostri obiettivi, le nostre risorse. Assolutamente vietato preoccuparsi o programmare cosa fare subito dopo, dobbiamo invece goderci quel momento.
Una mossa importante è quella di coltivare almeno una passione che ci permetta di rimanere soli a svolgerla, come ad esempio la pittura, la scrittura, oppure il giardinaggio.
Cerchiamo di dedicare del tempo, quanto più spesso possibile, a entrare in contatto con la natura, che sia osservare il cielo la sera, guardare l’alba, passeggiare in un parco o prenderci cura di piante e fiori sul balcone di casa.
Molto utile sarà poi iniziare a capire quali relazioni e abitudini hanno lo scopo di farci dimenticare la solitudine. Se siamo consapevoli di questo, migliorando il rapporto con noi stessi, ne sentiremo meno il bisogno, fino a non averne più. Questo sarà un test importante, perché nel momento in cui non abbiamo più l’esigenza di fuggire da noi stessi, allora abbiamo iniziato ad apprezzare la solitudine.
Ricapitolando:
1.Dedichiamo del tempo ogni giorno a noi stessi 2.Evitiamo distrazioni o preoccupazioni in quel tempo 3.Coltiviamo una passione da svolgere da soli 4.Entriamo in contatto con la natura 5.Liberiamoci delle distrazioni da noi stessi
Chissà quante volte ci hanno fatto questa domanda mentre eravamo bambini prima e ragazzi poi, e quante volte ce lo siamo chiesti noi stessi, e magari, anche adulti, continuiamo a chiedercelo.
La verità è che spesso non lo sappiamo adesso come non lo sapevamo allora, ma se prima era accettabile, adesso la cosa ci inquieta e delude, sentiamo il bisogno di scoprire come impiegare il nostro e tempo ed il nostro talento, vogliamo qualcosa che sia divertente, soddisfacente e ci faccia sentire realizzati.
Lungi dal poter dare la risposta universale a questa domanda , ecco qualche idea per trovare la vostra, di risposta:
Per prima cosa fate un elenco delle cose che più vi piace fare: possono essere passatempi,svaghi o passioni che avete e che vi fanno dimenticare che ore sono. Se non avete mai provato la sensazione di perdere la cognizione del tempo, pensate a ciò che più vi piace fare.
Fate poi un elenco di tutte le vostre competenze, sia che siano frutto del vostro lavoro presente e passato, sia che si tratti di abilità e capacità che avete maturato nella vostra vita.
Fate anche un elenco delle vostre doti personali, le qualità del vostro carattere, della vostra personalità, tutto quello che secondo voi rappresenta un vostro pregio.
Adesso provate a pensare a come potreste collegare i tre elenchi, unire passione, capacità e qualità personali. Tirate fuori tutte le idee che vi passano per la testa, sia che si tratti di un lavoro che esiste, sia che si tratti di una vostra invenzione, senza censura!
Infine valutate tra tutto ciò che avrete ideato le cose che più di tutte vi piacerebbe realizzare: se foste milionari, quale fareste comunque?
Adesso avete le idee più chiare su cosa fare da grandi!
Ricapitolando
1.Stabilite le vostre passioni 2.Stabilite le vostre abilità 3.Stabilite le vostre qualità 4.Miscelate il tutto senza censura 5.Scegliete ciò che fareste se non aveste bisogno di lavorare